Alzheimer, un test per la diagnosi precoce

Prima si conosce la diagnosi e meglio si può affrontare la malattia. Un principio universalmente valido per la medicina, che nessuno ha mai messo in discussione. Ma, a volte, la questione potrebbe essere leggermente più complessa di quanto non sembri a prima vista. È, per esempio, il caso dell’Alzheimer. Un disturbo neurodegenerativo contro il quale, purtroppo, a oggi ancora non esiste una terapia. E che, a dire il vero, è anche molto difficile da diagnosticare. Attualmente, i medici fanno affidamento su prove di memoria e ragionamento per identificare i pazienti colpiti dalla malattia – valutazioni non sempre infallibili, dal momento che circa una persona su cinque si rivela essere un falso positivo, affetto in realtà di altre forme di demenza o di problemi del tutto diversi, come la depressione. Per sapere con certezza se un paziente sia malato di Alzheimer, i medici devono prelevare alcuni frammenti di cervello, esaminarli al microscopio ed analizzare dei grumi proteici chiamati placche amiloidali. La presenza eccessiva di tali placche, per quello che sa oggi la scienza, è un indicatore cruciale della malattia. Ma, purtroppo, tale procedura rischia di compromettere ulteriormente le già deteriorate capacità mentali del paziente e, quindi, viene spesso eseguita solo post-mortem.

Le cose, comunque, potrebbero cambiare, come racconta Ingfei Chen su Scientific American: “Negli ultimi dieci anni gli scienziati hanno sviluppato sofisticate tecniche di scansioni cerebrali che sembrano essere molto utili per studiare le prime fasi dell’Alzheimer, prima che appaiano sintomi evidenti della malattia”. Con buoni esiti, tanto che la Food and Drug Administration, l’ente statunitense responsabile della regolamentazione dei farmaci, ha approvato un test di questo tipo, chiamato Amyvid, per migliorare la diagnostica in pazienti con difficoltà di memoria o altri problemi cognitivi. Si tratta di una prova che rileva le placche amiloidali senza ricorrere alla biopsia cerebrale. Tutto è iniziato una dozzina di anni fa, quando i ricercatori della University of Pittsburgh hanno iniettato in alcuni pazienti una piccola quantità di un colorante radioattivo, il Pib (Pittsburgh B), in grado di viaggiare nel sangue fino al cervello e quindi legarsi esclusivamente ai grumi di proteina amiloide. Sottoponendo i pazienti a una Pet (tomografia a emissione di positroni) i medici sono stati quindi in grado di vedere e contare le placche amiloidali nel loro encefalo.

Basandosi sull’approccio di Pittsburgh, i ricercatori di Avid Radiopharmaceutical hanno sviluppato l’Amyvid, una nuova sostanza che persiste più a lungo e quindi permette scansioni cerebrali più risolute e accurate. Attualmente, il test Amyvid è offerto da oltre 450 centri di imaging negli Stati Uniti, al costo di 3mila dollari. Per ora, il test è stato approvato ufficialmente per la diagnosi negativa, cioè per escludere il morbo di Alzheimer a chi ha già un decadimento cognitivo senza cause chiare. L’anno scorso, una task force di esperti istituita dalla Alzheimer’s Association e dalla Society of Nuclear Medicine and Molecular Imaging ha pubblicato inoltre una serie di linee guida “che consigliano di limitare l’uso del test a pazienti con deterioramento cognitivo lieve non spiegabile e persistente (Mci) e a quelli che hanno sviluppato la demenza troppo presto o con sintomi atipici, come allucinazioni o delirio”.

Ma sono anche casi in cui, secondo gli esperti, è meglio non sapere, come dicevamo all’inizio. Anzitutto perché il test non dà risposte certe e perché, al momento, contro l’Alzheimer non possiamo fare ancora molto. Jason Karlawish, professore di medicina ed etica medica alla University of Pennysilvania, fa notare che “eventuali risultati positivi potrebbero, per esempio, spingere individui deboli nella spirale della depressione, o addirittura al suicidio. Ma una tale informazione potrebbe anche rendere loro più difficile l’accesso alle assicurazioni sanitarie o al rinnovo della patente”. Dunque, massima prudenza. Almeno fino al 2018, quando gli esperti prevedono di avere i primi risultati organici delle sperimentazioni in atto. Solo allora sarà possibile capire se lo strumento potrebbe essere davvero efficace nella lotta alla malattia.

Via: Wired.it

Credits immagine: Institut Douglas/Flickr

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