Anche l’orecchio vuole la sua parte

Andrea Frova
Armonia celeste e dodecafonia
BUR 2006, pp. 360, € 10,20

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Sfidando il divieto di fare riferimenti personali, incomincio dicendo che sono un patito di musica classica. Patito è la parola giusta: da Mozart a Shostacovich la grande musica mi dà emozioni incontenibili. Addirittura, piango. Senza freni. L’aria “Lascia ch’io pianga” del Rinaldo di Haendel mi procura turbamenti inspiegabili; mi sembra straordinaria e non so dire a parole perché. Al contrario, un qualsiasi pezzo di questa nuova genìa di compositori che ha cambiato le regole “a tavolino”, che ha incominciato con la dodecafonia e adesso è addirittura post-dodecafonica, mi irrita, mi “suona male”, mi fa correre il dito al bottone off.
   
Ma ne ho parlato con gente molto più colta di me in fatto di musica. Mi è stato detto che ho pregiudizi gravi, che la libertà di comporre violando antiche e logore regole della composizione deve essere garantita e che, se ce la mettessi tutta e studiassi musica seriamente potrei capire. Ma, come un moscone chiuso in una stanza, nella testa mi ronza una domanda: “che cosa c’è da capire?” e lì sono rimasto, raggiungendo un’età tale che la voglia di cambiare testa mi è passata. Peggio per me. Potevo evitare di invecchiare in questo stato. Ma ecco che un brillante ed esperto collega, un fisico musicalmente educato, scrive questo libro e difende il diritto di non amare la dodecafonia e i suoi postumi. Ah! Perbacco: non sono il solo nell’universo!

Andrea Frova ha, come al solito, fegato: sfida la consorteria dei compositori atonali contemporanei e riesce a farsi aiutare da Roman Vlad e Giorgio Parisi che gli fanno due prefazioni lucide e non avverse. Vlad, che musicista è dei maggiori, cita prudentemente Adorno quando dice che la dodecafonia probabilmente deve ancora “svernare”. Più praticamente Parisi, da bravo fisico, dice che “…linguaggi musicali troppo poco strutturati rischiano […] di essere intrinsecamente poco godibili”. Ebbene, il libro di Frova dà una robusta base razionale all’adattamento di un detto popolare che suona così: “anche l’orecchio vuole la sua parte”. Non posso spiegarvi in poche righe le ragioni che fanno sì che tra molti musicisti contemporanei e il pubblico si sia scavato un abisso incolmabile. E non mi si dica che allora anche la matematica può essere rifiutata in nome dell’astrazione formale: perché la matematica non cerca di piacere ma risponde razionalmente a quesiti difficili; mentre la musica vuole piacere e non può farlo con regole formali ma solo con esperimenti di godibilità. L’unica via d’uscita che vi do è: leggete il libro e giudicate voi. Io qui vi lascio: senza alcun bisogno di essere convinto ma con il conforto di ciò che ho letto, me ne vado a sentire una bella edizione del Concerto per violino di Beethoven, che non mi stanca mai; e poi la Terza sinfonia di Mahler; e alla fine vedrò. E se qualcuno mi dice che la musica tonale è ormai impossibile perché esaurita, prima o poi mi imbarcherò nel calcolo combinatorio delle composizioni nuove che si possono ancora fare; e poi vi saprò dire.

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