Ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. È la filosofia della balenottera azzurra, che nelle sue immersioni non rimane sott’acqua per più di 15 minuti. In questo modo limita la quantità di energia spesa per nuotare e, al contempo, ingoia enormi bocconi di crostacei. Lo si legge sul Journal of Experimental Biology in uno studio condotto da Bob Shadwick e Jeremy Goldbogen, ricercatori alla University of British Columbia, in Canada.
La balenottera azzurra (Balaenoptera musculus) si nutre di krill, piccoli crostacei che vivono in banchi. Li cattura durante le immersioni, che raramente superano il quarto d’ora sebbene le immense riserve di ossigeno gli permetterebbero di rimanere sott’acqua molto più a lungo. Per spiegare questo fatto, i ricercatori parlano di efficienza energetica: immergendosi per poco tempo, le balenottere consumano poco, riuscendo a conservare la maggior parte dell’energia ricavata dal cibo.
Sino a oggi, fare un bilancio energetico delle attività del cetaceo era un’impresa, sia per la difficoltà di studiare un animale schivo, sia per la mancanza di un’attrezzatura adatta a raccogliere dati. Per il loro studio, i ricercatori canadesi si sono affidati a un gruppo che da anni raccoglie dati sulla biologia dei cetacei utilizzando strumenti all’avanguardia. Attraverso idrofoni, rilevatori di pressione e accelerometri, i ricercatori hanno calcolato la velocità delle balenottere durante le immersioni e il consumo energetico della “caccia”. Poi, studiando la morfologia della bocca e misurando le ossa di esemplari conservati nei musei, sono stati stimati il volume d’acqua e il numero di crostacei che un cetaceo può ingoiare.
Si è cosi scoperto che, grazie alla sua bocca gigantesca, la balenottera può ottenere da un singolo boccone quasi due milioni di KJ (kilojoule) di energia. Considerando che in ogni immersione la balenottera mangia sino a sei volte, i suoi pasti gli forniscono novanta volte l’energia spesa nel nuoto. In questo modo, riescirebbe a fare scorta per i momenti più critici.
Riferimenti: Journal of Experimental Biology doi: 10.1242/jeb.054189
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