Batterie di spinaci

Dalle foglie di spinacio nasce la prima cella solare che sfrutta la fotosintesi clorofilliana per produrre energia elettrica. Il cuore dell’innovativa batteria è costituito da un insieme di proteine estratte dai cloroplasti, gli organelli cellulari che costituiscono l’apparato fotosintetico dei vegetali. Il dispositivo, che misura un millimetro quadrato ed è uno dei più piccoli circuiti elettronici mai realizzati, nasce dalla collaborazione tra ingegneri elettronici e biomedici, biologi ed esperti di nanotecnologie di Massachusetts Institute of Technology (Mit), Tennessee University e US Naval Reasearch Laboratory.Il complesso proteico utilizzato deriva dal fotosistema I, uno dei due aggregati molecolari che catturano la luce e attivano la reazione fotosintetica: le proteine vengono purificate dalle foglie di spinacio e integrate con semiconduttori organici in una struttura a “sandwich”. Lo strato inferiore del dispositivo è costituito da vetro rivestito di un materiale conduttore trasparente (ossido di indio e stagno) che funziona da elettrodo e sul quale vengono depositate le proteine fotosintetiche. Uno strato soffice di semiconduttore organico previene eventuali cortocircuiti e separa le proteine dall’elettrodo in argento che completa il sandwich. Quando la cella viene irraggiata da luce a una determinata lunghezza d’onda le proteine fotosintetiche assorbono i fotoni e deviano gli elettroni eccitati attraverso lo strato semiconduttore e l’elettrodo in argento, generando così corrente elettrica.L’elevata efficienza con cui le piante convertono la luce solare in zuccheri, e quindi in energia, ha ispirato le ricerche di molti studiosi che da tempo tentano di sfruttare questo meccanismo combinando sostanze biologiche e materiali elettronici. Ma finora i risultati non sono stati brillanti: l’acqua e i sali che sono indispensabili alle piante per sopravvivere risultano estremamente dannosi per i materiali elettronici. Nei dispositivi realizzati i materiali organici si trovavano in soluzioni liquide, ma per un impiego commerciale dei dispositivi è indispensabile che le biomolecole possano essere integrate in materiali elettronici allo stato solido.“Il primo passo è individuare una biomolecola funzionalmente interessante e potenzialmente sfruttabile”, spiega Vittorio Pellegrini, leader del gruppo di biofisica molecolare dell’Istituto Nazionale per la Fisica della Materia della Scuola Normale di Pisa, “ma il problema maggiore resta quello di realizzare un dispositivo in cui la biomolecola possa effettivamente interfacciarsi con un elettrodo o, in generale, con un dispositivo elettronico”. Il gruppo di Pellegrini lavora da tempo nel campo della nanofotonica e ha brevettato un dispositivo biomolecolare per la processazione di bit d’informazione basato sull’ingegnerizzazione di proteine verdi fluorescenti estratte dalla medusa Aequora victoria. “La fase più critica nella realizzazione di un dispositivo biomolecolare è proprio la funzionalizzazione, controllata e stabile, del substrato attraverso strategie di tipo chimico e biochimico”, prosegue Pellegrini. I ricercatori del Mit hanno proposto una soluzione efficace a questo tipo di problema: Shuguang Zhang, ricercatore del team e direttore del Centro di Ingegneria Biomedica, ha realizzato una struttura di peptidi sintetici che imita la membrana cellulare e mantiene la proteina stabile e funzionale per almeno tre settimane anche in assenza di acqua, sulla superficie solida e asciutta della placca elettronica.Ma se è vero che in un futuro non troppo lontano potremo ritrovare la piccola batteria “fotosintetica” in computer portatili e telefoni cellulari, il nuovo dispositivo presenta ancora un grosso limite in termini di efficienza: il suo potere di conversione dell’energia è ancora lontano da quello delle tradizionali celle fotovoltaiche in silicio. Ora l’obiettivo dei ricercatori del Mit è implementare il prototipo per passare da un’efficienza attuale del 12 per cento al 20 per cento e oltre, per esempio creando strati multipli del complesso proteico oppure aumentando la superficie alla quale possono aderire le proteine con l’impiego di placche ruvide o strutture tridimensionali.

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