Cervelli cercasi

Poco competitivi, talvolta professionalmente inadeguati e sicuramente troppo mammoni per decidere di andare all’estero: così Ezio Giacobini, docente di Farmacologia e Neuropsichiatria alla University of Illinois, smonta il mito della fuga dei cervelli italiani. Un mito rinvigorito di recente dalle dichiarazioni di Antonio Iavarone e Anna Lasorella, i ricercatori italiani che, negli Usa, hanno svelato il meccanismo genetico di un tumore del sistema nervoso. Gli studiosi italiani hanno infatti dichiarato di essere stati costretti all’esilio dal nepotismo del mondo della ricerca italiana. Le loro parole hanno così riacceso la polemica sulla questione della fuga dei cervelli dal nostro paese. Da 25 anni all’estero, Giacobini,ha raccontato a Galileo il suo punto di vista controcorrente.

Professor Giacobini qual è il suo parere sul problema della fuga di cervelli?

“A dire il vero, il problema della ricerca italiana non è la fuga di cervelli. In realtà, l’Italia è uno degli ultimi paesi esportatori di talenti. Nel mercato della ricerca, che per antonomasia è quello americano, le risorse umane provenienti dall’Italia sono inferiori addirittura a quelle provenienti dai paesi dell’Est”.

Ma allora qual è il problema della ricerca italiana?

“Il nocciolo della questione è che il mondo della ricerca è permeabile solo in un verso, in uscita: i ricercatori italiani che vanno a specializzarsi all’estero, un’esperienza fondamentale per la formazione scientifica, non riescono a ritornare, e gli stranieri molto raramente vengono a specializzarsi nel nostro paese. Non so quale sia l’esatta percentuale di non italiani che occupano un incarico di docenza nei nostri atenei, ma penso sia molto esigua. Sicuramente non paragonabile a quella delle università di altri paesi: a Zurigo, in Svizzera, il 60 per cento del corpo docente universitario è formato da stranieri di comprovata qualità. In America la quota è di un terzo”.

Mancano dunque le opportunità per tornare…

“In Italia regna una chiusura totale del mercato e una quantità di impedimenti burocratici che paralizzano completamente le Università. Basti pensare che il premio Nobel Rita Levi Montalcini non ha mai ottenuto una cattedra in Italia e che Carlo Rubbia, anch’egli premio Nobel, ha avuto la sua prima cattedra dopo quasi dieci anni dal conseguimento del premio. La ragione di queste inammissibili mancanze è la trafila burocratica per accedere a un concorso per l’attribuzione di una cattedra”.

E la penuria di ricercatori stranieri che vengono a specializzarsi in Italia?

“E’ la dimostrazione che la ricerca italiana è chiusa. Da noi non esiste alcun “mercato” dei talenti. Non c’è competizione e lo sviluppo della ricerca ristagna. Siamo completamente tagliati fuori da qualsiasi scambio culturale e scientifico”.

Ma la fuga di cervelli italiani è reale?

“Non direi: pochi italiani vanno all’estero, e questo non certo perché manchino le opportunità. Al contrario, sul mercato americano la richiesta è altissima. Ma ci sono delle difficoltà, prima fra tutte l’incompatibilità dei titoli accademici tra l’Italia e Stati Uniti. Peraltro, quasi mai nelle università straniere i ricercatori vengono assunti sulla base del loro titolo: quello che conta sono piuttosto le esperienze maturate in laboratori di comprovata qualità e le pubblicazioni”.

Il ricercatore italiano hanno dunque raramente ha un curriculum adeguato per il mercato americano?

“In Italia purtroppo la media dei laboratori non è buona e tantomeno competitiva, anche se ci sono delle punte di ottimo livello: il Dibit di Milano e la Sissa di Trieste, tanto per dire i primi due che mi vengono in mente. Ma la lista sarebbe più lunga. La scarsa mobilità dei ricercatori italiani però in moltissimi casi pale non è la preparazione quanto il carattere. É un dato di fatto che gli italiani sono molto meno propensi stranieri a separarsi dalla famiglia e dagli affetti, ad abbandonare consuetudini di vita. In passato ho avuto modo di selezionare 30 ricercatori italiani per la Illinois University. Davanti alla proposta di un impegno professionale a lunga scadenza la maggioranza si tirava indietro per via della separazione con il proprio partner. Un aspetto, questo, che non preoccupa i ricercatori di altri paesi”.

E’ per questo che Iavarone e Lasorella hanno espresso il desiderio, nonostante i successi maturati all’estero, di tornare in Italia?

“Forse, ma non solo. Bisogna anche considerare che fare il docente universitario in America è meta ambita di molti, ma anche scomoda a sostenersi. La Harvard University, in virtù del proprio prestigio, non solo non concede alcuno stipendio ai docenti, ma richiede persino che siano loro a portare un contributo economico personale alle ricerche. Per un italiano abituato a uno stipendio, senz’altro basso ma comunque garantito, questo non è facile accettare queste condizioni”.

Quali sono secondo lei le possibili soluzioni?

“Un cambiamento radicale delle strutture istituzionali. Mi riferisco ovviamente alle università, che dovrebbero essere più flessibili: andare a caccia di talenti – così come fanno gli americani – e offrire a questi ricercatori delle opportunità interessanti, sostenute da investimenti adeguati”.

Mancano i soldi quindi?

“Esatto. Lo Stato Italiano dedica solo l’1 per cento del prodotto interno lordo alla ricerca (contro il 3 per cento degli Stati Uniti) e non esiste alcuna forma di finanziamento privato della ricerca. Un esempio: non ci sono grandi industrie farmaceutiche italiane e quindi investimenti privati nella ricerca. E le holding straniere (americane e inglesi per lo più) che operano in Italia hanno maggiore convenienza a investire nella ricerca statunitense”.

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