A 35 anni dal disastro di Chernobyl: gli effetti a lungo termine sulla salute

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(Credits: Maksym Sirman on Unsplash)

Ormai 35 anni fa avveniva il più famoso incidente nucleare della storia. Il disastro di Chernobyl, l’esplosione del reattore numero 4 dell’omonima centrale sovietica che disperse nubi di polveri radioattive in un’area di decine di chilometri, provocando decine di morti accertate e migliaia (se non milioni) di decessi collaterali dovuti a tumori e altri problemi di salute, mai completamente mappati ufficialmente. A più di tre decenni da una tragedia che gettò in allarme l’intero continente, gli effetti a lungo termine sulla salute delle popolazioni raggiunte dalla nube radioattiva emessa dalla centrale non sono ancora stati chiariti del tutto. Due nuove ricerche, pubblicate su Science, aggiungono un tassello importante, che aiuterà a guidare le scelte di salute pubblica in caso di nuovi incidenti. Un’eventualità impossibile da scongiurare completamente, come ci ha ricordato appena 10 anni fa il disastro di Fukushima, unico altro incidente nucleare a meritare la classificazione al livello più alto (il settimo) dell’International Nuclear and radiological Event Scale (Ines).

Chernobyl e tumori

Il primo aspetto riguarda il legame tra radiazioni ionizzanti e tumori, un collegamento ovvio, ma non facile da studiare. I dati epidemiologici disponibili avevano fatto emergere già in passato una maggiore incidenza di carcinomi papillari della tiroide nella popolazione delle aree direttamente coinvolte dall’incidente, un’ampia zona tra Ucraina, Bielorussia ed ex territori dell’Urss. È noto inoltre che lo iodio radioattivo, uno dei più pericolosi materiali diffusi da esplosioni ed incidenti atomici, tende a depositarsi su pascoli e coltivazioni in seguito ai fallout nucleari, può essere ingerito attraverso il latte o il consumo di vegetali e si concentra quindi nella tiroide rappresentando un rischio, soprattutto nei primi anni di vita, per lo sviluppo di tumori. Mancava però la pistola fumante, per così dire, perché non esistono marker biologici che permettono di distinguere un tumore causato da radiazioni da uno sviluppatosi naturalmente o per l’esposizione ad altri tipi di inquinanti, ed è quindi difficile studiare esattamente la prevalenza del problema, e identificare i meccanismi con cui le radiazioni provocano lo sviluppo delle neoplasie.


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Per questo, nel nuovo lavoro un team di ricerca internazionale ha deciso di cercare una firma delle mutazioni tumorali indotte dall’esposizione alle radiazioni, integrando dati genomici, epigenomici e trascrittomici (cioè l’analisi di tutti gli rna trascritti a partire da un genoma), analizzando campioni provenienti da oltre 400 cittadini ucraini che hanno sviluppato un tumore della tiroide negli anni seguenti al disastro di Chernobyl, e altri 81 con lo stesso tipo di neoplasia nati a sufficiente distanza temporale dall’incidente da non essere stati raggiunti dalle radiazioni.

I risultati dell’analisi hanno permesso di identificare il meccanismo più probabile con cui le radiazioni inducono la comparsa del carcinoma papillare della tiroide: si tratta di un tipo di danno al dna definito rottura del doppio filamento (o Double-Strand-Break), estremamente difficile da riparare per le cellule, che nella popolazione studiata è risultato più comune al crescere della dose di radiazioni a cui si è stati sottoposti e in caso di esposizione in giovane età. La ricerca – scrivono i suoi autori – non ha permesso di ottenere un biomarcatore univoco per i tumori indotti dalle radiazioni, ma offre risultati importanti nell’ambito della salute pubblica per la gestione di pazienti esposti a dosi non particolarmente elevate di radiazioni, confermando che un punteggio poligenico di rischio (un approccio che calcola le probabilità di sviluppare un tumore a partire dal panorama genetico del singolo paziente) è uno strumento utile per individuare le persone che hanno maggiori pericoli in caso di esposizioni alle radiazioni in tenera età.

Mutazioni nella generazione successiva

Il secondo studio si è concentrato su un aspetto forse ancor più sensibile: gli effetti che possono avere le radiazioni sulla prole. Non è ancora chiaro infatti se esistano o meno rischi maggiori di alterazioni genetiche nei figli di persone esposte ad un’elevata radioattività, e si tratta di una lacuna importante, visto che chiunque sopravviva a un simile incidente avrà naturalmente delle remore nel pianificare una gravidanza. Per scoprirlo, un team internazionale guidato dai ricercatori del National Cancer Institute americano ha sequenziato l’intero genoma di 105 triadi formate da madre/padre che abitavano entro 70 chilometri dalla centrale all’epoca del disastro o che hanno partecipato alle prime operazioni di bonifica della zona, e dai loro figli. Studiando l’intero nucleo familiare, i ricercatori hanno potuto registrare il tasso di mutazioni de novo presenti nel genoma dei figli, cioè le mutazioni non ereditarie che appaiono per la prima volta nel dna dell’embrione, e che comportano un altissimo rischio per la salute, trattandosi di novità genetiche mai passate per il setaccio della selezione naturale. I ricercatori sono riusciti anche a ricostruire i livelli di esposizione alle radiazioni delle gonadi di entrambi i genitori, ottenendo così risultati affidabili anche in termini di quantità di rischio in proporzione alla quantità di radiazioni ricevute.

Il tasso di mutazioni de novo che si registra nella nostra specie è estremamente basso, pari a 0,00000001 per singolo nucleotide per sito in ogni generazione (ogni lettera di ogni gene presenta 0,00000001 mutazioni nuove in ogni nuova generazione). E nei bambini dei sopravvissuti all’incidente di Chernobyl la situazione è risultata esattamente la stessa, a dimostrare che anche dosi relativamente alte di radiazioni non sembrano rappresentare un rischio per chi decide di programmare una gravidanza. Come chiariscono gli autori della ricerca, lo studio ha coinvolto figli nati a mesi, se non anni, di distanza dall’incidente, e genitori esposti a dosi relativamente elevate, ma non elevatissime, di radiazioni, e non può quindi dirci quali siano i pericoli in caso di gravidanze più ravvicinate o dosi più massicce. Nonostante questo, si tratta di un’indicazione rassicurante per chi, come avvenuto più di recente alle popolazioni che abitavano nei pressi di Fukushima, si trova accidentalmente (o professionalmente) esposto a dosi preoccupanti di radiazioni.

Via: Wired.it

Credits immagine: Maksym Sirman on Unsplash