Contro le guerre dell’acqua

Nel corso della storia la lotta per il controllo della terra o delle rotte commerciali ha causato la maggior parte delle guerre: e per questo, gli Stati nazione si sono dotati di strumenti politici e legali, come i trattati internazionali, per regolare l’accesso a queste risorse. Ma nel XXI secolo, le cose potrebbero andare diversamente, e la lotta per l’acqua potrebbe sostituire quella per la terra ferma. A rischio potenziale sono tutte le situazioni dove un grande bacino fluviale attraversa più di uno Stato: lo sfruttamento intensivo delle acque da parte di un Paese corrisponde quasi inevitabilmente a un danno per quelli che si trovano a valle.

E di fronte a questo tipo di conflitti, Stati e organizzazioni internazionali sono per lo più impreparati. Secondo Fiona Curtin di Green Cross International, (l’organizzazione non governativa fondata da Mikhail Gorbaciov che si occupa di promozione dello sviluppo sostenibile), la principale fonte di conflitti in tutti questi bacini sono le grandi dighe: “Tutte le dighe hanno un impatto che va oltre qualunque confine. Non solo quelli geografici, ma anche quelli etnici, sociali, culturali, economici. Il punto è che le persone coinvolte nella progettazione, costruzione e gestione della diga non sono mai le uniche a risentire dei suoi effetti”.

Le grandi dighe hanno infatti impatto su tutto il bacino. Cambiano le pianure alluvionali, i corsi dei fiumi, la qualità e la temperatura dell’acqua, riducono la pescosità, il limo trasportato al mare. Inoltre, sono spesso accusate di aumentare l’attività sismica, e di contribuire al cambiamento climatico. Secondo la Curtin, “in quasi tutti i 300 bacini fluviali del mondo gli effetti delle dighe causano conflitti: tra gli Stati, tra le province, tra diversi settori della società, tra le comunità locali e il governo. Conflitti che contribuiscono all’instabilità delle regioni, e che rappresentano un ulteriore peso sulle spalle di società che sono già tra le più povere del mondo”. È possibile indirizzare la gestione dei grandi bacini fluviali verso la cooperazione, anziché verso il conflitto insanabile e potenzialmente incontrollabile? Green Cross, in collaborazione con l’Unesco, ha da poco avviato un programma, “Water for Peace”, che si propone proprio di studiare la situazione geopolitica e i rapporti socioeconomici in sei tra i più grandi bacini fluviali del mondo. Due, il Danubio e il Volga, sono in Europa. Uno è in sud America, il bacino del La Plata.

Il Volta e il Okavango sono in Africa, e il Giordano in Medio Oriente. L’obiettivo è definire strumenti politici, di contrattazione sociale ed economica per prevenire i conflitti che potrebbero insorgere per le mutate condizioni ambientali, come crescita demografica, cambiamento climatico, nonché a causa di un cambiamento nelle condizioni politiche. Per far questo, Green Cross si occuperà soprattutto di mediazione tra Stati, di attività di formazione e informazione ai funzionari statali, di comunicazione e sensibilizzazione verso il pubblico, di definizione di accordi legali per lo sfruttamento delle risorse idriche. Il progetto è ora nella fase di studio, e una prima relazione sarà presentata a settembre al vertice sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg.I sei bacini studiati sono molto diversi, ma condividono alcune caratteristiche chiave: sono la linfa vitale delle regioni che attraversano, e la loro gestione è penalizzata da difficoltà di comunicazione e mancanza di collaborazione tra le nazioni e all’interno degli stessi Paesi.

Il Bacino del La Plata occupa circa il 17 per cento del totale del territorio del Sudamerica, estendendosi su Brasile, Bolivia, Paraguay, Uruguay e Argentina. Molte centrali idroelettriche sono già state costruite in quest’area, e altrettante sono in progetto per i prossimi anni. Le relazioni tra gli Stati si sono orientate sempre più, nel corso degli anni, verso la cooperazione. Ma da questa gestione politica sono rimaste fuori le comunità locali che vivono nell’area. Ora che altre centrali idroelettriche sono in progetto, l’area offre un’opportunità unica per evitare di ripetere gli errori degli scorsi decenni. Il caso dell’Okavango è un tipico esempio di conflitto tra diversi usi di una risorsa naturale. Il bacino, un vero gioiello dal punto di vista ambientale e paesaggistico, è diviso soprattutto tra Namibia e Botswana, due regioni disperatamente aride.

La prima sta progettando di deviare in parte il corso del fiume per aumentare l’apporto idrico in risposta ai bisogni della popolazione. La seconda, allo stesso modo, vuole aumentare la portata d’acqua del fiume ma ha un potente incentivo a preservarne la bellezza: il turismo. L’obiettivo del progetto qui sarà di studiare la possibilità di una condivisione di costi e benefici delle gestione del bacino tra i due Paesi. La situazione nel bacino del Volta, diviso tra sei stati africani tra cui Burkhina Faso e Ghana, è una vera e propria bomba a orologeria. Insieme a ben poche altre risorse naturali, l’irrigazione dei campi è l’unica possibilità di sviluppo economico, se non di sopravvivenza, per gran parte della popolazione. La prolungata siccità degli ultimi decenni ha esacerbato la competizione per l’acqua del fiume. Lo sfruttamento dell’acqua da parte del Burkhina Faso rende più drammatica la situazione a valle, in Ghana.

E la comunicazione tra i due Paesi è totalmente assente. Il bacino del Danubio, pur attraversando ben 17 Paesi, è particolarmente interessante per la comprensione e la prevenzione dei conflitti a livello locale e all’interno dei singoli Stati. In nazioni come Romania e Ungheria, le trasformazioni politiche degli ultimi anni hanno profondamente mutato il ruolo delle autorità statali e locali da un lato, e costretto a considerare diversamente le risorse naturali dall’altro. In questo quadro, l’operato delle amministrazioni locali, che devono prendere molte decisioni cruciali rispetto alla gestione delle risorse idriche, è in questo momento reso complicato dalla scarsità di informazioni.

Così anche la popolazione, che ha finalmente ottenuto il diritto a partecipare alle decisioni attraverso le istituzioni democratiche, manca in molte zone degli strumenti informativi e culturali necessari per farlo. Per quanto riguarda il bacino del Volga, invece, il problema è trasformare quello che per 70 anni è stato un sistema (insediamenti industriali, centrali idroelettriche, tratti navigabili) gestito su misura delle esigenze militari in una risorsa per lo sviluppo sostenibile della regione.Ma il vero banco di prova sarà quello del bacino del fiume Giordano, diviso tra Giordania, Israele, Siria, Libano ed Egitto. In una regione martoriata da un conflitto decennale, le acque di questo fiume diventano sempre più scarse, e cresce la competizione tra gli Stati per controllarle e sfruttarle. I Paesi che si affacciano sul bacino hanno risorse idriche estremamente limitate, e la competizione per le scarse acque del Giordano è una della cause, di cui raramente si parla, del conflitto secolare in queste Terre.

Il clima arido, la popolazione in continua crescita fanno dell’acqua la risorsa più preziosa della regione. La storia recente dello sfruttamento del Giordano esemplifica chiaramente le conseguenze di progetti di sviluppo unilaterale. Per esempio, la costruzione di serbatoi di immagazzinamento da parte della Siria provoca scarsità d’acqua in Giordania e Israele. La storia inizia nel 1951, quando la Giordania annunciò il piano per deviare parte del corso del fiume Yarmouk verso est. In risposta, Israele iniziò nel 1953 la costruzione del suo sistema National Water Carrier, che dal 1964 iniziò a deviare l’acqua dalla valle del fiume Giordano. La conseguenza fu il summit dei Paesi arabi del 1964, dove venne preparato un piano per deviare le acque del Giordano verso Siria e Giordania. Dal ‘65 al ‘67 Israele attaccò questi progetti di costruzione in Siria: una delle ragioni per cui scoppiò la Guerra dei Sei Giorni del 1967, in cui Israele distrusse completamente il progetto siriano di deviazione.

Questo diede a Israele il controllo del Giordano e di significative risorse idriche del sottosuolo. Il più recente conflitto direttamente collegato all’acqua è stato quello del 1969, quando Israele attaccò il canale East Ghor, in Giordania, a causa del sospetto che stesse deviando una quantità eccessiva di acqua. Così dei circa 1400 milioni di metri cubi che si riversavano nel Mar Morto negli anni Cinquanta, oggi ne rimangono circa 2-300, ed estremamente salati, il che crea gravi problemi ambientali. Con l’eccezione della Siria, gli altri Paesi del bacino sono tra i più poveri del mondo in quanto a risorse idriche: abitualmente, si considerano Paesi gravemente poveri d’acqua quelli in cui il consumo pro-capite rimane al di sotto dei mille metri cubi all’anno. In Israele, Giordania e Palestina, nell’anno 2000, il consumo d’acqua è stato rispettivamente di 250, 235, 115 metri cubi. Entro il 2020, la situazione potrebbe drammaticamente peggiorare, arrivando a soli 59 metri cubi all’anno a persona nei territori palestinesi.

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