Salute

Coronavirus: ecco quanto ci vuole perché il vaccino faccia effetto

vaccini ci sono. Arrivano alla spicciolata, e per ora non riusciamo a somministrarli per tempo nemmeno così, ma finalmente la strategia che abbiamo scelto per uscire da questa pandemia è pronta a dare i suoi frutti. Attenzione però a cantare vittoria troppo presto, o cadere vittima delle inevitabili bufale che già iniziano a farci compagnia all’indomani delle prime somministrazioni. Una puntura, infatti, non equivale a una patente di immunità. E anche per la stragrande maggioranza della popolazione, che studi alla mano dovrebbe ottenere in pieno i benefici della vaccinazione (se mai riuscirà a mettere le mani sulle preziose fialette), i rischi non cessano immediatamente con la prima iniezione. Ci vuole tempo, infatti, perché il nostro sistema immunitario impari a riconoscere e contrastare Sars-Cov-2. E nei giorni (più spesso settimane) che trascorrono prima che il vaccino faccia l’effetto sperato, è ancora possibile ammalarsi di Covid-19 esattamente come se non si fosse fatta alcuna iniezione.

Per questo motivo, casi come quello della dottoressa siciliana che ha ricevuto il vaccino lo scorso 28 dicembre per risultare poi positiva al coronavirus appena sei giorni dopo (mandando in brodo di giuggiole il solito esercito di novax nostrani) non faranno che moltiplicarsi nei prossimi mesi. E non devono farci dubitare: per capire perché basta un breve ripasso dei principi che guidano la risposta del sistema immunitario, e su cui si basa, di conseguenza, l’efficacia dei vaccini.

Come combattiamo le infezioni

Iniziamo dalle basi. I patogeni infettano il nostro corpo per replicarsi nelle cellule e invadere l’organismo. È così che provocano i sintomi di una malattia come Covid-19, e fortunatamente il nostro sistema immunitario ha diverse armi a sua disposizione per difenderci: le principali sono i globuli bianchi, un gruppo di cellule del sistema immunitario che, con compiti e caratteristiche diverse, contribuiscono a riconoscere e neutralizzare il virus (o il batterio) e le cellule infette. Il processo avviene per gradi, e impiega del tempo. Se tutto va come sperato, dopo giorni, o settimane, l’infezione viene sconfitta, e nell’organismo rimane traccia del patogeno che l’ha provocata sotto forma di cellule di memoria, globuli bianchi (in particolare linfociti T B) in grado di riconoscere un antigene presente sulla superficie del virus o del batterio in questione, e di reagire prontamente non appena torna a presentarsi nel nostro organismo, riattivando i meccanismi di difesa che si erano rivelati più efficaci. E così come ci vuole tempo perché il sistema immunitario prepari le sue armi e sconfigga un’infezione, per farsi poi trovare pronto per un eventuale secondo round, lo stesso accade quando utilizziamo un vaccino per ottenere l’immunità ad un patogeno.


Vaccino anti-Covid, le cinque cose da sapere


Come funziona un vaccino

Un vaccino infatti non è altro che un mezzo per sviluppare artificialmente quell’immunità che nasce naturalmente in seguito a un’infezione. Oggi i vaccini sfruttano molte tecniche differenti per arrivare all’obiettivo. Ma che si tratti di vaccini a mRna (come quello di Pfizer che stiamo inoculando proprio in questi giorni), vaccini basati su vettori virali, su virus attenuati o altro, quello che fanno è presentare l’antigene virale di Sars-Cov-2 al nostro sistema immunitario senza bisogno di un’infezione vera e propria, così che l’organismo monti una risposta immunitaria, affini le sue armi e si tenga pronto per neutralizzare il virus in caso di un futuro contatto.

Anche in questo caso lo strumento principe sono i linfociti T e i linfociti B, e gli anticorpi prodotti da questi ultimi, quelle immunoglubuline M G (Igm e Igg) che abbiamo imparato a conoscere con i test sierologici. Come nel caso di un’infezione, il processo di immunizzazione procede per tappe: per prima cosa fanno la loro comparsa gli anticorpi Igm, meno specifici e meno efficaci, e solo in seguito arrivano quelli Igg, più potenti e specifici.

Il richiamo

Servono circa dieci giorni perché facciano la loro comparsa i primi anticorpi Igm, e altri dieci per gli Igg. A due-tre settimane dall’inoculazione dunque il vaccino inizia ad avere una certa efficacia nel prevenire le infezioni da Covid-19. Dai dati diffusi negli scorsi mesi, per i vaccini Pfizer e Moderna si parla di una protezione pari circa al 70%, che va migliorata ricorrendo al richiamo del vaccino. Una seconda iniezione che viene effettuata appunto a 21 giorni dalla prima, e che serve a potenziare ulteriormente il sistema immunitario. Attivandolo nuovamente quando le immunoglobuline G sono già presenti, i meccanismi di affinamento della risposta immunitaria subiscono infatti un ulteriore miglioramento, che dopo un’altra settimana dall’iniezione della seconda dose porta l’efficacia del vaccino (stando ai dati presentati dalle due case farmaceutiche) attorno al 95%.

Per ogni 100 vaccinati con entrambi i cicli di iniezioni, quindi, 95 non dovrebbero quindi ammalarsi di Covid, almeno nei mesi seguenti (quanto durerà l’efficacia dei vaccini al momento non si sa). Esiste sempre purtroppo quel 5% di persone che non saranno protette neanche dopo aver espletato l’intera routine vaccinale, come accade con quasi qualunque vaccino esistente, e dunque è bene tenersi pronti perché capiteranno inevitabilmente casi di persone vaccinate che si ammaleranno di Covid-19.

Funzionano, ma vanno iniettati

Quante, attualmente, è difficile da prevedere. Alla prova dei fatti, i vaccini potrebbero infatti rivelarsi meno efficaci di quanto emerso negli studi clinici presentati per la loro approvazione, anche perché una campagna vaccinale di portata ampia come quella che stiamo faticosamente tentando di mettere in piedi si scontrerà necessariamente con problemi e difficoltà attualmente imprevedibili. Solo la sorveglianza epidemiologica dei prossimi mesi potrà fornirci una stima concreta dell’efficacia dei vaccini che abbiamo a disposizione, ma realisticamente i numeri finali dovrebbero essere abbastanza vicini a quelli emersi dagli studi clinici. Il problema, al momento, sembra piuttosto un altro: perché i vaccini facciano effetto, infatti, bisogna riuscire a inocularli. Ed è qui che, come suol dirsi, rischia di cascare l’asino.

Attualmente le vaccinazioni procedono ancora con lentezza disarmante. Che si trattasse di un’impresa titanica era chiaro dai primissimi mesi di epidemia, quando l’arrivo di un vaccino sembrava ancora un miraggio. Ma. anche questa volta, sembra che abbiamo fatto di tutto per farci trovare impreparati: in 5 giorni siamo riusciti a somministrare circa 180mila dosi di vaccino Pfizer, sulle 469mila arrivate il 31 dicembre. Al 5 gennaio ne sono arrivate altre 470mila, che per ora si andranno ad accumulare nei frigoriferi in attesa di smaltire almeno la prima fornitura. Nonostante le rassicurazioni del commissario per l’emergenza Domenico Arcuri, è quindi difficile immaginare realmente di veder vaccinate 1,8 milioni di persone entro la fine del mese. Figuriamoci di arrivare a quel 70% degli italiani vaccinati entro l’autunno necessario per ottenere i benefici dell’effetto gregge prima che la protezione dei vaccini inoculati in queste settimane inizi a svanire (una possibilità, purtroppo, molto concreta per quel che sappiamo dei coronavirus). Eppure a questo punto è veramente l’ultima chance: o riusciremo a sfruttare i vaccini per uscire dall’emergenza, oppure arriverà il momento di ammettere che al nostro paese serve un piano B… quale che sia.

via Wired.it

Simone Valesini

Giornalista scientifico a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. Laureato in Filosofia della Scienza, collabora con Wired, L'Espresso, Repubblica.it.

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