Categorie: Società

Cosa indicano i dati raccolti con i test INVALSI?

Nel corso del convegno “Ricordando Daniela Furlan. Riflessioni sul fare scienze a scuola” (Spinea, 17 – 19 giugno 2015) Paolo Mazzoli, Direttore generale dell’Invalsi, l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di Istruzione e di formazione, si è confrontato con i docenti partecipanti sul sistema di valutazione della scuola italiana, raccogliendo critiche e suggerimenti e rispondendo ad alcune domande. Le risposte alla seconda domanda (mentre qui quelle alla prima: A cosa servono davvero i test INVALSI)

di Paolo Mazzoli

2 – Cosa indicano i dati raccolti con le prove e con il rapporto di autovalutazione?
Il rapporto di autovalutazione è fatto dalle persone della scuola, e non è pubblico fino a quando il dirigente scolastico non decide di renderlo pubblico, scegliendo quali dati pubblicare e quali no. Le uniche persone che possono produrre, analizzare e utilizzare questi dati per il miglioramento della propria scuola sono gli insegnanti, che sanno in quali condizioni lavorano, e conoscono le caratteristiche del loro territorio. Per esempio, dall’autovalutazione fatta in alcune scuole risulta che in seconda primaria i risultati in italiano sono relativamente più bassi della media del territorio, mentre in quinta sono più alti. A ben guardare questo è un buon dato. Sarebbe molto peggio se i risultati fossero meno buoni in quinta che in seconda.

Ma la mia domanda è questa: è meglio o peggio disporre di questi dati? Questi dati aiutano o no gli insegnanti a calibrare e a migliorare il loro lavoro?

Se conoscere questi risultati non aiuta, i dati si possono buttare via. Se invece si pensa che sono utili, se vedere la differenza tra le classi dei piccoli e quella dei grandi, o i cambiamenti nel tempo, dà agli insegnanti stessi delle informazioni in più, se è utile vedere che c’è una connessione tra risultati delle classi numerose e di quelle con pochi alunni, se si possono fare dei confronti tra le differenza riscontrate e si possono comprendere le ragioni di queste differenze, allora queste analisi hanno un senso.

Se le prove non servono per le politiche di incentivazione economica, le interpretazioni dei tanti dati raccolti permettono invece di rispondere a domande specifiche. Per esempio: si può sapere se c’è una correlazione, positiva o negativa, nella qualità dell’apprendimento della lettura con quello che veniva chiamato “metodo globale”? Si può sapere, cioè, se il metodo globale è più o meno efficace di quello fonematico e alfabetico analitico nell’apprendimento della lettura? Si può sapere se l’insiemistica ha fatto del male alla qualità dell’apprendimento matematico?

Si possono avere tre risposte: c’è connessione positiva, negativa, non c’è risposta. Interessa porsi il problema, e per rispondere bisogna raccogliere dati reali. Quelli raccolti dall’Invalsi permettono di elaborare un reticolo di controlli, magari inizialmente solo locali e poi portati a sistema, per ottenere risposte documentate. Altrimenti si resta in balia di opinioni casuali. Magari un pedagogista può proporre un suo metodo per l’insegnamento della matematica, e se non si verifica la sua efficacia, le scuole lo adottano per passaparola e lo seguono per fascinazione momentanea.
Per esempio, qualcuno ha voluto dimostrare che il sostegno è controproducente per i Disturbi Specifici dell’Apprendimento, i cosiddetti DSA, cioè che avere il sostegno è peggio che non averlo. Anche per gli argomenti più delicati servono dati affidabili, e non c’è cosa peggiore delle mode didattiche perché generano danni a lungo termine.

Le connessioni non devono essere fatte a occhio basandosi solo sull’esperienza di qualche insegnante. Non basta il confronto tra colleghi, ci vuole una quantità notevole di riscontri e una analisi dei risultati. Per esempio, l’insieme di dati raccolti, non solo dall’Invalsi, permettono di rispondere alla domanda sull’efficacia del metodo globale, che ha molte potenzialità e che fin dall’inizio ha portato a un insegnamento più naturale e gratificante. Statisticamente si dimostra, però, che un metodo in cui non si riordina mai il sistema dei segni e dei suoni va bene quando i bambini non hanno problemi, ma va male quando i bambini hanno anche piccole difficoltà di vario tipo. Queste conclusioni vengono validate da modelli statistici, che hanno messo in evidenza criticità dimostrate sul campo e che oggi fanno capire quanto fosse un azzardo puntare tutto sul metodo globale.

L’Invalsi può ora esplorare e ricombinare le caratteristiche dei diversi approcci, accorgersi delle criticità ed elaborare dei sensati quadri di riferimento individuando modi di lavorare diversi ed efficaci nelle varie situazioni. Su questi quadri le insegnanti possono costruire la loro autonomia didattica, interpretare quello che succede nelle loro classi e valutare i suggerimenti che arrivano da diverse parti senza fidarsi troppo delle opinioni personali o di dati episodici.

Per esempio, De Mauro e parte della Giscel sono convinti (e io penso che abbiano tutte le ragioni per esserlo) che fare grammatica con i piccoli sia controproducente. Sostiene che è sciocco riflettere sulla lingua quando si sta ancora imparando la lingua. Normalmente nelle classi elementari si fanno riflessioni su una grammatica raffazzonata, che non trova alcun riscontro con la grammatica usata dai linguisti. Ma dall’abolizione della grammatica al non avere mai momenti in cui far emergere le regole del linguaggio, quando si è arrivati al punto di poterlo fare, c’è una bella distanza. Forse non ha senso individuare i meccanismi di suffissazione o le caratteristiche delle coniugazioni in seconda elementare, e su questo ha ragione De Mauro, ma certe norme grammaticali possono emergere nel momento appropriato, nelle condizioni in cui insegnarle è proprio giusto.

Le prove Invalsi possono dimostrare statisticamente se ragazzi che hanno seguito un curricolo sperimentale di insegnamento, davanti a delle domande impegnative di grammatica e comprensione del testo, se la sono cavata bene; oppure se hanno avuto un insuccesso totale. Se si pensa che le domande di italiano sono addirittura controproducenti e non implicano, e non provano, nessuna padronanza né di grammatica né di comprensione, allora si dovrebbero inficiare del tutto le prove e costruirne altre. Ma io continuo a pensare che bisogna comunque trovare dei criteri per sapere cosa succede effettivamente nella scuola.

(2 – segue)

Credits immagine:Juan Carlos Mejía/Flickr cc
Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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