Categorie: Salute

Così i farmaci entrano nel cervello

Bucarla è più che mai difficile. E da una parte per fortuna. Stiamo parlando della barriera ematoencefalica (Bee), ovvero quel muroformato da cellule endoteliali strettamente impacchettate intorno ai vasi sanguigni nel cervello che lo schermano così da virus, batteri e tossine, permettendo l’ingresso solo del carburante (ilglucosio). Bucarla però sarebbe d’altra parte fondamentale per poter veicolare farmaci al sistema nervoso centrale, e cercare così di trattare disturbi neurologici come il Parkinson e l’Alzheimer, ma anche alcuni tipi di cancro. Ed è quello che ha in mente di provare a fare a breve un gruppo di neuroscienziatiguidati da Kullervo Hynynen del Sunnybrook Research Institute di Toronto.

Hunynen infatti tra poco comincerà un trial che coinvolgerà dieci pazienti con tumori cerebrali. Questui verranno trattati prima con un chemioterapico che non attraversa la Bee solitamente, poi  invece riceveranno delle iniezioni (nel sangue) di microbolle e quindi l’esposizione a degli ultrasuoni. Perché? L’idea (come mostrato qui) è che le bolle vengano messe in vibrazione dagli ultrasuoni e che così facendo forzino le cellule endoteliali ad aprirsi, favorendo il passaggio dei farmaci in circolo (i chemioterapici in questo caso).

Per osservare che le cose vadano proprio così – e quindi dimostrare che un modo per oltrepassare la barriera ematoencefalica (oltre che ricorrendo ad alcune sostanze liposolubili o piccoli traghettatori come gli esosomi) esiste – i ricercatori utilizzeranno un marcatore fluorescente così da seguirne il suo passaggio dal sangue al tumore attraverso tecniche di imaging. Inoltre, dal momento che i pazienti verranno sottoposti a interventi per rimuovere la massa tumorale dopo il trattamento, l’analisi sul tessuto prelevato confermerà se davvero il chemioterapico abbia o meno raggiunto la neoplasia nelle aree sottoposte a ultrasuoni.

Aprire la Bee (che torna in condizioni di normalità dopo poche ore, dicono gli esperti) significa certo anche metterne in pericolo la sua funzione di difesa. Ma come spiega Hunynen alcuni esperimenti sugli animali hanno mostrato come la procedura in questione sia abbastanza sicura e con pochi effetti collaterali.

Via: Wired.it

Credits immagine: jj_judes/Flickr


Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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