Covid perde forza? Un’ipotesi sensata in cerca di indizi

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Si sente dire da qualche settimana: il coronavirus potrebbe aver iniziato a perdere forza. Lo hanno ripetuto, a più riprese, diversi specialisti impegnati in prima fila nella lotta contro Covid-19, per spiegare il fatto che nei pazienti ospedalizzati si vedrebbero sempre meno spesso le sintomatologie gravissime delle prime settimane di epidemia. Una buona notizia insomma, se non fosse che le opinioni scientifiche non sono univoche. Con la fase due appena iniziata, e la sua inevitabile scia di polemiche e reprimende, le smentite ora hanno preso a farsi più tranchant, e complici uscite poco felici come quella del Governatore del Veneto Luca Zaia, secondo cui un eventuale indebolimento di Covid dimostrerebbe la natura artificiale del coronavirus, la stessa idea che un virus epidemico possa farsi meno letale inizia a sembrare un’ennesima bufala. La verità? Non ci sarebbe nulla di strano se Sars-Cov-2 stesse evolvendo verso forme meno pericolose, ma gli indizi disponibili, al momento, non sono sufficienti a dimostrarlo.

La percezione dei clinici d’altronde arriva dall’esperienza in reparto. Una fonte importante di informazioni sulla malattia, che però può trarre in inganno anche il medico più scrupoloso: ci sono molte possibili spiegazioni per il minore numero di pazienti gravi osservato in questa fase dell’epidemia, e l’indebolimento del virus è solo una di queste, forse una delle meno probabili. Per poterla confermare serviranno studi in vitro ampie casistiche dalle corsie, tutte informazioni che richiedono tempo per essere raccolte e analizzate a dovere. “Personalmente non ritengo probabile che Sars-Cov-2 si stia indebolendo”, confida a Wired Massimo Andreoni, esperto di malattie infettive dell’università Tor Vergata di Roma. “La sensazione nasce da una riduzione di mortalità e da un minore numero di ricoveri in terapia intensiva, ma si tratta di fenomeni che possono anche spiegarsi da soli: il lockdown ha diminuito i malati, e quindi ne vediamo meno meno con sintomi gravi e registriamo meno morti nei nostri ospedali”.

Non è tutto: Covid-19 infatti è una malattia che tende a falcidiare le persone più fragili, ed è quindi possibile (specialmente nelle zone più colpite dall’epidemia) che il virus abbia finito per selezionare i pazienti più a rischio nelle fasi iniziali (dilagando ad esempio nelle Rsa), e dopo i tanti morti (e per fortuna anche i tanti guariti) degli scorsi mesi ora si trovi per forza di cose a colpire persone meno fragili, provocando quindi sintomatologie ed esisti meno infausti. Le capacità terapeutiche, per quanto ancora lacunose, sono inoltre migliorate. Di pari passo con le condizioni degli ospedali e il numero di posti in terapia intensiva, creando condizioni di lavoro meno drammatiche per i medici. Tanti tasselli che potrebbero aver contribuito a migliorare la prognosi dei pazienti.

“Le spiegazioni possibili, insomma, sono molteplici, e in questa fase sarebbe meglio evitare di esternare quelle che sono semplici sensazioni, e attenerci ai dati scientifici”, continua Andreoni. “Il virus potrebbe benissimo essersi indebolito, ma per dirlo bisogna effettuare studi in vitro per verificare l’esistenza di ceppi meno aggressivi, studi genetici che identifichino le mutazioni avvenute nel genoma virale e i loro effetti, e studi clinici che certifichino realmente una minore incidenza di esiti infausti o accessi alle terapie intensive”.

Di opinione diversa l’immunologo Guido Silvestri, della Emory University di Atlanta, che nella sua consueta rubrica di aggiornamento su Covid non nasconde in questo caso un cauto ottimismo. Calcoli alla mano, il professore ritiene che la riduzione delle infezioni legata al lockdown spieghi solamente in parte la diminuzione di casi gravi e ricoveri in terapia intensiva vista nelle scorse settimane. Anche il minore sovraccarico degli ospedali e i miglioramenti terapeutici (ancora limitati) non spiegherebbero a dovere la situazione. Per questo motivo, silvestri ritiene concreta la possibilità che il virus abbia iniziato a perdere potenza: sia per dinamiche co-evolutive già viste nel caso di altre malattie, sia perché le temperature più alte (come capita di norma con i coronavirus) potrebbero aver favorito infezioni legate a un minore inoculo virale, cioè contagi provocati da un numero minore di particelle virali, che di norma provocano malattie dalla sintomatologia meno severa.

Tutte ipotesi, ovviamente, che necessitano di dati inconfutabili per essere confermate. Ma che non devono essere bollate – come fatto da qualcuno negli scorsi giorni – come pseudoscienza. Che i virus possano perdere aggressività con il tempo è infatti cosa nota, e facile da spiegare (a posteriori ovviamente) in una prospettiva evoluzionistica: l’optimum per un virus non è uccidere il proprio ospite, ma piuttosto riuscire a replicarsi e infettare quante più persone possibile. Passando da un malato all’altro le mutazioni naturali del virus sono sottoposte a un processo di selezione, che può portare alla diffusione di ceppi meno aggressivi, meno capaci di uccidere ma proprio per questo più efficaci nel diffondersi tra la popolazione.

“Esempi simili di co-evoluzione tra virus e ospiti sono stati documentati in passato, ad esempio nei conigli, in cui è stato studiato un virus con altissima letalità, superiore al 90%, che diffondendosi nella popolazione è arrivato velocemente a perdere aggressività producendo ceppi con una letalità inferiore al 50%”, conclude Andreoni. “Si tratta però di processi molto complessi, troppo per prevedere l’esito dell’evoluzione dei virus a priori. In altri casi, come quello della varicella, i virus si comportano in modo opposto, diventando più aggressivi passando da un primo paziente ad un nuovo contagio. Nel caso del nuovo coronavirus sappiamo che sta accumulando mutazioni nel suo genoma, ma per dire quali effetti avranno sul suo fenotipo ci vorranno ancora dei mesi”.

via Wired.it

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