Dr. Flessibile e Mr. Celera

Un nome, una rete di rapporti personali e un capitale da investire, il sapere. Ecco uno degli ibridi direttamente prodotti dalla società della conoscenza: il ricercatore autonomo di prima generazione, metà scienziato e metà uomo d’affari. Di lui e del contesto che lo ha fatto nascere si parla in ‘Scienza S.p.a.’, un libro firmato Laser (Laboratorio Autonomo Scienza Epistemologia Ricerca) che uscirà il 19 febbraio, per la casa editrice DeriveApprodi. Il libro è un’inchiesta realizzata tra il 1998 e il 2001 che delinea il rapporto tra scienza e postfordismo. Rappresenta un progetto aperto e un insieme di idee che nascono da riflessioni, opinioni ed esperienze di una pluralità di persone, per questo i suoi autori, per lo più ricercatori, hanno scelto di firmarlo con un nome collettivo. Galileo ha incontrato uno di loro, Fabio Sterpone, ricercatore di biofisica a Parigi.

Che cos’è Laser?

“Laser è un gruppo di ricercatori e studenti, soprattutto fisici e filosofi della scienza, ma anche biologi molecolari, informatici e grafici, che si occupa della non neutralità della scienza. In particolare del rapporto che intercorre tra produzione scientifica, potere, finanza, mode e linguaggi. Siamo un gruppo di lavoro permanente, nato all’interno dell’Università di Roma, ormai sette anni fa, che cerca di capire come la scienza possa essere uno strumento di liberazione e miglioramento della vita sociale, senza per questo occultarne le funzioni di controllo e sfruttamento”.

Perché avete scelto per il vostro libro la firma collettiva?

“Laser è nato come un collettivo e ha sempre firmato i suoi lavori con un nome collettivo. Scienza SpA è la sintesi dell’elaborazione nel tempo di idee e approcci diversi, interviste, chiacchierate, discussioni di gruppo e iniziative pubbliche all’università. Nessuno di noi, singolarmente, avrebbe potuto rivendicare il ruolo di autore del libro. Il NoAuthor rappresenta per noi la crescita di una piccola comunità, ma anche la sua apertura. Laser, infatti, si è sviluppato grazie a stimoli differenti, l’università, i centri sociali, le riviste di movimento, le scelte e le passioni individuali, la ricerca, i circuiti relazionali più disparati. Il NoAuthor è anche la premessa di un progetto di inchiesta sul rapporto tra scienza, tecnologia, potere e liberazione che deve restare aperto. Di questo progetto Scienza Spa è una versione 1.0. Infine, il NoAuthor è anche una provocazione: nell’ambito scientifico la pubblicazione è l’unico criterio valutativo dell’attività di ricerca. Un criterio d’altra parte che non è sempre oggettivo. Spesso dietro la lista degli autori di uno studio si nascondono gerarchie di potere, si riproducono favori di cordata. Per un giovane ricercatore oggi la corsa alla pubblicazione si affianca alla condizione di precarietà e alla mancanza di opportunità stabili. Noi abbiamo deciso che chiunque può dichiararsi autore di Scienza SpA e usarlo nel proprio curriculum vitae per denunciare questa perversione”.

Perché avete scelto l’inchiesta come strumento d’indagine?

“Quando è nata l’idea dell’inchiesta molti di noi si stavano laureando. Volevamo capire cosa c’era fuori dalle mura dell’università, cosa ci aspettava come futuri ricercatori. Abbiamo quindi cercato di mettere a fuoco, non con un’indagine quantitativa ma attraverso una fotografia di alcune realtà significative, il ruolo della scienza nella società postfordista. L’idea dell’inchiesta per noi nasce inoltre dalla tradizione dell’autoformazione sul campo. Abbiamo macinato chilometri, incontrato persone vis – a vis e via rete. Nel libro presentiamo uns piccola parte del materiale accumulato: partendo dalla piccola impresa a conduzione familiare che, puntando sull’innovazione tecnologica e il rapporto con le università (italiane e straniere) si è affermata nel settore high – tech della micromeccanica arrivando a quotarsi in borsa. Passando per la nascita della micro – impresa scientifica di modellistica molecolare al computer che lavora nel settore della consulenza chimico – farmaceutica. Per arrivare alla start – up biotecnologica, nata all’interno dell’università, che studia le mutazioni genetiche per conto di terzi. Naturalmente queste realtà non esauriscono il campionario di esperienze presenti nella società postfordista tecnologica, ma mettono in luce alcuni percorsi significativi: l’incontro tra ricerca e imprese esistenti, la fuga totale o parziale della ricerca pubblica verso il mercato”.

Qual è il rapporto tra scienza e postfordismo?

“Semplificando, nel 1968, a un convegno di Confindustria qualcuno ha proposto che per sfruttare le capacita creative dei lavoratori, fondamentali in un processo produttivo che fa della comunicazione la sua leva di sviluppo, occorreva imitare il lavoro di una équipe scientifica, basato sullo scambio di informazioni e sulla creazione di interfacce che permettevano all’innovazione di essere utilizzata. Questa idea tradotta nella pratica del lavoro in fabbrica ha significato una rivoluzione. Così dal lavoro fordista, ripetitivo e alienante, si è passati all’organizzazione toyotista, in cui anche agli operai è chiesta una sorta di brain storming. In questo caso la comunità scientifica e la sua attitudine al confronto ha rappresentato un modello per la produzione industriale. Ecco un esempio forte di una forma di asservimento della conoscenza alla produzione. Lo scambio però è stato bidirezionale, e così anche la scienza ha vissuto la sua transizione, dai grandi laboratori, le cattedrali della scienza, si è passati alla ricerca in rete, dall’organizzazione verticale a quella orizzontale. Dalla dicotomia pubblico – privato all’imprenditoria scientifica a partecipazione mista. Parallelamente è avvenuta una trasformazione anche nelle discipline scientifiche: la fisica delle alte energie ha lasciato il posto alla biologia molecolare, ai sistemi complessi, alle discipline di frontiera (bioinformatica, econofisica), allo studio intensivo dei nuovi materiali”.

Chi è il “ricercatore autonomo di prima generazione”, a cui è dedicato un intero capitolo del vostro libro?

“E’ una figura nata dai cambiamenti sociali dell’ultimo trentennio, anche se non ne esiste una versione unica. Piuttosto si può parlare di una versione forte – il ricercatore affermato che investe direttamente sulla propria conoscenza per fare business, giocando in questa operazione le carte che ha a disposizione: l’autorità del nome, i suoi rapporti personali, l’insieme delle sue conoscenze -, di una versione debole – l’insieme di ricercatori strozzati dalla precarietà geografica e salariale, che trovano nel mondo imprenditoriale uno sbocco per le loro ricerche – e di una serie di sfumature intermedie. Prendiamo due esempi concreti: il dottorando italiano che vivacchia per tre anni con uno stipendio molto basso, e, di contro, un caso noto, quello di Craig Venter il fondatore della Celera Genomics. Venter è frutto di un sistema – quello americano – agli antipodi rispetto al nostro, che ha fatto sì che molte aziende, informatiche e biotecnologiche soprattutto, sono state fondate o hanno avuto tra i loro ricercatori dei premi Nobel. Insomma, nonostante le differenze il Dottor Flessibile e Mr. Celera hanno un elemento in comune: agiscono in un tessuto sociale ed economico – produttivo sostanzialmente simile. Una società postfordista che permette di mettere a valore un insieme sempre più vasto di conoscenze. Questo contesto, insieme alla natura dinamica dell’imprenditoria scientifica, ha trasformato il ricercatore in un lavoratore autonomo”.

Nella società postfordista qual è il rapporto tra scienza e opinione pubblica?

“Un rapporto mediatico, perché tutti sono alla caccia dello scoop giornalistico. Sia i media che usano le ricerche scientifiche per produrre sensazionalismo che i ricercatori attratti da nuovi strumenti di affermazione e di business. Oggi siamo stretti in una morsa: da una parte la pubblicazione di una notizia può far salire alle stelle un titolo della borsa, dall’altra la ricerca scientifica continua a essere oscura e distante dalla gente comune. In Italia, è assente un autentico dibattito pubblico sulla scienza. E la colpa è anche degli scienziati, che si nascondono spesso dietro lo slogan positivista di una scienza benefattrice a tutti i costi, invece di ribadire che sia la ricerca, non diversamente da altri settori della produzione, che il ricercatore devono sottostare a vincoli sociali, economici e politici. Basti un esempio, dietro l’idea che le biotecnologie agroalimentari possano risolvere il problema della fame c’è una scelta e un programma politico”.

Come si colloca Laser rispetto al movimento contro la globalizzazione liberista?

“Il ruolo di Laser è aperto. Fin dall’inizio ci siamo chiesti se la scienza poteva essere un terreno di conflitto. Secondo noi, lo è. Qualche anno dopo alcuni temi intorno ai quali è nato il movimento di Seattle ci hanno dato ragione. Tra le questioni c’è anche il problema dell’accessibilità al sapere e alla tecnologia. Laser condivide con il movimento queste e altre riflessioni. Ci piacerebbe, ad esempio, che alla produzione scientifica venisse estesa la libertà del sapere propria dei laboratori hacker. Per quanto ci riguarda, poi, la natura ibrida di Laser, per metà sparpagliato in Europa e per metà attivo in alcune realtà sociali a Roma, ci ha aiutato a mantenere equilibrato il rapporto tra azione e riflessione”.

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