Droghe e tossicodipendenze, politici e scienzati si devono parlare

Ho appreso di recente che un mio amico e collega medico, affetto da una grave malattia degenerativa del sistema nervoso, si è rivolto a un omeopata. L’evento in sé non stupisce, visto che l’omeopatia, come numerose altre forme di “medicina alternativa”, viene usualmente praticata e proposta da medici e che trova il suo riscontro di pubblico nel 33 per cento di Italiani che si rivolge alle “medicine complementari”, anche se in maniera non esclusiva (1).

Ciò che mi ha sorpreso è che nel caso del mio amico si tratta di persona dalle solide conoscenze scientifiche e rigore metodologico nella ricerca e nella pratica professionale. Da lui non mi sarei aspettato una simile fiducia in pratiche non sostenute a dovere da evidenze scientifiche. Ora, la medicina non è una scienza. Una buona parte di quanto il medico propone al suo paziente non deriva dalle scoperte scientifiche, ma da altre fonti: dalla sua esperienza, da quella di chi gli ha insegnato il mestiere, dalla sua inclinazione alla prudenza o alla temerarietà. In un articolo ironico, pubblicato pochi anni fa sul British Medical Journal, gli autori proponevano numerose alternative non scientifiche in grado di condizionare le scelte del medico: l’esperienza, la veemenza, la sicurezza, la provvidenza, ecc. [1].

Oggi la medicina tende sempre di più a utilizzare le conoscenze scientifiche e applicare le tecnologie che ne derivano. La cosiddetta evidence based medicine (medicina basata sulle evidenze) rappresenta una garanzia per l’efficacia degli interventi. Essa infatti propone l’utilizzo dei trattamenti e terapie la cui efficacia sia stata provata attraverso studi riproducibili, condotti con appropriato rigore metodologico nella fase di progettazione, esecuzione e ponderazione dei risultati. Purtroppo l’ampiezza degli atti medici che a tuttora sono sostenuti dalla evidence based medicine è limitata: per numerose malattie non possediamo trattamenti dall’efficacia riconosciuta e numerose decisioni sono ancora basate su prove di bassa o insufficiente consistenza scientifica, su opinioni e pregiudizi personali.

L’incertezza diagnostica

Se le cose stanno così per le malattie “ufficiali”, come il cancro, l’infarto o il diabete, esse si complicano ulteriormente quando il consenso medico sull’esistenza della “condizione morbosa” si assottiglia. È il caso delle malattie mentali, per le quali non esistono, o non sono sufficienti, le prove sul danno d’organo o comunque biologico. In questo caso abbiamo uno stato di sofferenza, una riduzione/compromissione della speranza e/o qualità della vita o della libertà, che si traducono in un disvalore e che vengono attribuite a una disfunzione fisica, psichica o comportamentale. Per potere essere oggetto di attenzione da parte della medicina (psichiatria), questi stati e condizioni non devono essere ricondotti alla devianza da una qualunque norma (religiosa, politica, sessuale, ecc.) o al conflitto fra l’individuo e la società. Come si vede l’ambito di “incertezza diagnostica” aumenta notevolmente nel caso delle “affezioni” che colpiscono la mente. Il consenso medesimo sulla collocazione di queste “entità” nell’ambito della patologia medica si assottiglia a tal punto da indurre gli studiosi del settore a dismettere il termine “malattia” e a sostituirlo con quello di “disturbo”.

La tossicodipendenza, che consiste essenzialmente in una condizione psichica e comportamentale, viene inquadrata oggi fra i disturbi mentali. Essa viene qualificata come tale quando la compulsione per l’assunzione delle sostanze d’abuso (eroina, cocaina, alcol, ecc.) è tale da rappresentare l’occupazione prevalente dell’individuo, è tale da essere vissuta come limitativa della libertà personale e da creare sofferenza o compromissione del funzionamento individuale o sociale. Gradi inferiori di compromissione corrispondono alla diagnosi di abuso. Nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV TR), edito dalla American Psychiatric Association [2] e accettato dalla comunità psichiatrica internazionale come manuale diagnostico di riferimento, la dipendenza e l’abuso sono inclusi tra i disturbi da uso di sostanze assieme all’intossicazione, all’astinenza e ad altre condizioni associate.

Curare la tossicodipendenza

Sarebbe facile osservare che nel caso delle tossicodipendenze la causa sia nota: la sostanza. In realtà sappiamo bene che la sostanza d’abuso rappresenta una condizione sine qua non perché si instauri un comportamento tossicomanico, ma non ne costituisce la causa. La cultura occidentale ha dimostrato nei secoli come sia possibile consumare il vino senza divenirne dipendenti. Altre culture hanno fatto analoga esperienza con altre sostanze (coca, oppio).

Per molto tempo si è pensato che la causa della dipendenza fosse l’astinenza. Alla cessazione dell’uso intenso e prolungato di una sostanza come alcol o eroina compare la cosiddetta “sindrome di astinenza”, ovvero uno stato di profondo malessere psicofisico. Si riteneva che la ricaduta nell’uso della sostanza dipendesse essenzialmente dalla necessità di sfuggire questo stato di malessere. Tutto ciò che poteva fare la medicina era di alleviare i sintomi dell’astinenza. Chi in questo modo riusciva a liberarsi della “malattia” poteva ritenersi “guarito”, a chi non ci riusciva venivano applicate categorie mediche come quella della “dipendenza psichica”, contrapposta a quella “fisica”, o altre categorie non mediche come quella di “vizioso”. Purtroppo col tempo alle ricadute dei viziosi si aggiungevano quelle dei guariti. Bisognava trovare spiegazioni più convincenti per giustificare la persistenza nel tempo di un comportamento di ricerca e uso delle sostanze d’abuso o della frequenza delle ricadute a dispetto delle conseguenze avverse sul piano fisico, psichico e sociale.

Soprattutto i progressi della neurobiologia hanno consentito di chiarire numerosi aspetti della “fisiopatologia” delle dipendenze, ovvero dei meccanismi biologici che sono coinvolti nell’azione delle sostanze d’abuso e nell’instaurarsi della dipendenza. Oggi sappiamo che le sostanze che piacciono all’uomo, come eroina o cannabis, agiscono sostituendosi ad analoghe sostanze che il nostro cervello produce normalmente per scopi fisiologici. Sappiamo che le sostanze di abuso sono in grado di indurre dipendenza anche nell’animale. Il ratto o la scimmia, imparano ad autosomministrarsi eroina, cocaina, nicotina, alcol e cannabis come l’uomo, e come l’uomo finiscono per preferire questa attività a quelle che gli sono più consone nelle aree dei bisogni primari per l’individuo (alimentazione), per la specie (sesso) o per entrambi (vita di relazione).

Si è osservato che sia nell’animale sia nell’uomo, l’effetto delle droghe è associato alla liberazione di un particolare mediatore chimico, la dopamina, in determinate aree del cervello [3, 4]. Si è osservato come la liberazione di questa sostanza sia associata all’“immagazzinamento” nella memoria a lungo termine di informazioni sugli stimoli, eventi situazioni associati all’uso e all’effetto delle droghe. Con le moderne metodiche di neuroimaging si è osservato quali aree del cervello si attivano quando anche a distanza di tempo dall’ultima esperienza tossicomanica la presentazione degli stessi stimoli attiva il craving o il bisogno impellente di ripetere l’esperienza [5].

Anche sul versante delle terapie si sono compiuti progressi rilevanti. Sono oggi disponibili evidenze a sostegno dei principali interventi nel campo delle dipendenze da sostanze: interventi residenziali (comunità terapeutiche), interventi ambulatoriali di tipo farmacologico o non (psicoterapie). Per alcuni di questi trattamenti, come quello di mantenimento con metadone, sono disponibili evidenze sufficienti a dimostrarne incontrovertibilmente l’efficacia [6]. È oggi possibile affermare che gli interventi nel campo delle dipendenze sono di livello analogo o superiore a quelli utilizzati per l’ipertensione, per l’asma o per il diabete sia in termini di accettazione da parte dei pazienti che di prevenzione delle ricadute.

Il consenso sociale all’atto medico

Ancorché la comunità scientifica riconosca la validità di una scoperta e l’efficacia di un approccio o terapia, l’impatto sociale delle conoscenze acquisite si misura sul consenso che raccolgono nell’opinione pubblica. Quest’ultimo è condizionato dalle conoscenze, credenze, convinzioni preesistenti nel particolare contesto sociale, che possono facilitare od ostacolare l’adesione al nuovo modello/terapia. In una cultura che attribuisce la responsabilità di uno stato psicofisico a forze della natura o soprannaturali, la proposta sanitaria, ancorché scientificamente basata, non trova consenso e viene rifiutata. L’affermazione di principi scientifici e conseguenti tecnologie richiede spesso un movimento controcorrente che suscita un aumento della resistenza sociale. Ai tempi di Galileo Galilei non solo le autorità religiose si rifiutavano di guardare dentro il suo telescopio, ma lo costringevano all’abiuria: «Con cuor sincero e fede non finta, abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie» [7].

Nel 2005 a Robin Warren e Barry Marshall, fu assegnato il premio Nobel per aver scoperto l’Helicobacter pylori e la sua implicazione nei disturbi gastrici [8]. L’ulcera peptica era stata per lungo tempo considerata una malattia su base psicosomatica. Questa credenza era sostenuta da una specifica plausibilità patogenetica elaborata nell’ambito della teoria psicoanalitica. I due ricercatori dovettero combattere contro questo pregiudizio, come anche contro il diffuso pregiudizio della comunità medico-scientifica che riteneva l’ambiente gastrico talmente acido da non consentire la colonizzazione da parte di microorganismi.

Nel caso dei disturbi da uso di sostanze psicoattive e più in generale delle dipendenze patologiche (che includono anche comportamenti non implicanti l’utilizzo di sostanze, ma analoghi problemi e conseguenze, come il gioco d’azzardo), il problema del consenso sociale all’approccio sanitario si complica non poco per diverse ragioni. In primo luogo, come già detto non si tratta di malattia ma di disturbo. Anche all’interno della comunità medico-scientifica si guarda con un certo sospetto e scetticismo a queste condizioni e al loro trattamento. Chi non se ne occupa direttamente non è di solito sufficientemente informato da poter sostenere o confutare approcci e trattamenti più di chi non esercita una professione sanitaria. Capita abbastanza di frequente che un medico suggerisca un trattamento e che un suo collega, o un infermiere, o uno psicologo, o un farmacista consigli la sua sospensione.

L’insufficiente cultura scientifica sull’argomento “droga” da parte dei tecnici della salute contribuisce alla prevalenza nella società di approcci emotivi e irrazionali alla gestione delle problematiche connesse. In secondo luogo, si tratta di condizioni frequentemente associate a comportamenti delinquenziali o criminali, sia per l’effetto diretto di sostanze che di per sé possono produrre disinibizione comportamentale e aumentare il livello di aggressività (come alcol e cocaina), sia per la difficoltà/impossibilità di sostenere i costi delle sostanze in maniera legale. Inoltre la condizione tossicomanica influenza la performance sociale di queste persone, la loro capacità di instaurare relazioni, di sostenere un comportamento leale e affidabile. Ciò che colpisce di più l’opinione pubblica non è il comportamento “disturbato”, ma il comportamento “disturbante”. L’allarme sociale che ne deriva si traduce facilmente in una richiesta di provvedimenti di carattere punitivo e sanzionatorio e nella indisponibilità ad accettare visioni sanitarie e proposte di “cura”.

Infine, i trattamenti oggi proposti e sostenuti dalle evidenze scientifiche, sebbene efficaci, richiedono tempo e impegno; inoltre non garantiscono la guarigione. Si pensi a questo proposito al successo ottenuto, al contrario, da approcci improbabili, rischiosi, e inefficaci come l’UROD (Ultrarapid Opioid Detoxification) che promette una disintossicazione sotto anestesia generale, rapida, indolore e risolutiva [9, 10]. Si pensi anche al successo ottenuto, all’estero e in Italia, da leader carismatici e santoni inclini a promettere il “miracolo”.

L’informazione e la comunicazione su droghe e tossicodipendenza

Il tema della droga viene trattato di solito con superficialità. La rappresentazione che ne viene fornita dai mezzi d’informazione è spesso caricaturale. I toni sono quelli della demonizzazione delle sostanze, della colpevolizzazione degli utilizzatori, della discriminazione dei pazienti. Raramente le persone con problemi di dipendenza vengono rappresentate per le loro difficoltà a vivere una vita piena e soddisfacente. Più spesso appaiono sui mezzi di informazione quando si rendono responsabili di crimini e violenza.

Si tratta di atteggiamenti che promuovono l’esclusione sociale di chi vive il problema e anche di chi in qualche modo se ne occupa. I servizi per le dipendenze divengono non più risorse per la cura, ma luoghi dello stigma. Non viene promossa la solidarietà e la responsabilità. Il problema non diventa un carico per la società, ma per i singoli che lo vivono e per i loro familiari. Entrambi si trovano a doversene vergognare, ad autoemarginarsi, a negarlo o a rimuoverlo per poter godere di una minima accettazione sociale. La cosa diviene addirittura paradossale se si pensa all’estensione dell’uso delle sostanze che registriamo oggi in Italia. I dati IPSAD della relazione al Parlamento del 2005 ci dicono che il 31 per cento degli italiani di età 15-54 anni nel corso della vita ha consumato cannabis, il 6,7 per cento cocaina, il 3,4 allucinogeni, il 3,8 stimolanti.

Nei mass media è quasi del tutto assente la presentazione o discussione degli aspetti scientifici del problema. Delle sostanze viene genericamente presentata la pericolosità, non il modo in cui agiscono, gli effetti che producono sul cervello e sul comportamento. Non vengono presentati i fattori di rischio e quelli protettivi coinvolti nella disponibilità all’uso e nella genesi dell’abuso e della dipendenza. Non vengono presentati gli aspetti neurobiologici, psicologici e sociali che rendono difficile la relazione dei tossicodipendenti con gli altri e con la società. Soprattutto non vengono presentate le cure. Il dibattito viene ridotto all’alternativa “morire o salvarsi”. Le cure che ottengono le prime pagine sono quelle tanto miracolose quanto inutili o inesistenti: il “metodo UROD”, il “vaccino per la cocaina”.

Oggi la notizia sarebbe invece che la tossicodipendenza si può curare, che i trattamenti disponibili possono consentire di vivere una vita buona o accettabile anche laddove il problema persista, né più e né meno di altre condizioni o malattie che colpiscono il fisico e la mente, come l’epilessia o la depressione, che non devono più essere motivo di vergogna o discriminazione.

Andrebbe promosso un dibattito e un confronto fra il mondo della scienza e quello della comunicazione. Il tema del consumo di sostanze e delle dipendenze dovrebbe trovare posto negli spazi dedicati all’informazione scientifica dei mezzi di comunicazione: televisione in primo luogo. Andrebbe incoraggiata la partecipazione dei tecnici, degli studiosi, degli esperti. Credo sia un dovere per i professionisti del settore, per le società scientifiche, per le istituzioni, stimolare la propensione dei mass media per un’informazione costruita sui fatti piuttosto che sulle paure, scientificamente rigorosa, costruttiva e responsabile.

La politica

Un problema di vaste proporzioni, che condiziona la vita dei singoli, delle famiglie, della società, non può non rientrare del dibattito politico, richiedere l’adozione di programmi e l’assunzione di decisioni, nell’interesse della promozione della migliore convivenza sociale possibile fra i cittadini. Purtroppo ciò che spesso si osserva negli indirizzi e nelle scelte di molti paesi occidentali, fra cui l’Italia, è la “coltivazione” del pregiudizio sociale, la proposta della soluzione miracolistica: morale o militare, da cui le soluzioni, ope legis.

In totale spregio delle evidenze scientifiche, si sostiene: a) le droghe sono tutte uguali; b) l’alcol e la nicotina non sono droghe; c) il metadone cronicizza la tossicodipendenza; d) la “riduzione del danno” incoraggia il consumo di droghe e quello delinquenziale. Il risultato è che la quotidianità di vita, l’evoluzione della cura di una persona con problemi di dipendenza, a differenza di quella del cardiopatico, o dell’asmatico, dipendono più dalle decisioni del ministro che da quelle del suo medico o équipe sanitaria di riferimento, indipendentemente dai progressi della scienza. Il trattamento di mantenimento con metadone, nonostante abbia una efficacia indiscussa in termini di riduzione della mortalità per overdose, riduzione/cessazione dell’uso di eroina, miglioramento dello stato psichico e dell’adattamento sociale, a tuttora è vietato in cinque Stati degli USA, nell’ex Unione Sovietica e in Cina, nonostante la crescita esponenziale della diffusione dell’AIDS.

Più scienza e meno ideologia contro le droghe

In generale, in Italia, il dibattito politico sulle tematiche dell’uso, dell’abuso e della dipendenza da sostanze appare povero, condizionato da visioni ideologiche contrapposte, disattento agli elementi di conoscenza che dovrebbero invece informare il confronto.
Io ritengo che sia dovere della scienza parlare alla politica. È mia opinione che i politici debbano ascoltare i tecnici quando devono prendere una decisione sulla quale questi ultimi hanno qualcosa da dire. Capisco e condivido che il peso e la responsabilità della decisione non debba essere trasferita ai tecnici. Tuttavia, le scelte della politica dovrebbero tenere in considerazione le acquisizioni scientifiche, seppure bilanciandole e confrontandole con il livello delle conoscenze, dei pregiudizi, con le propensioni e le aspettative della popolazione alla quale sono rivolte. Non si può imporre un modello di assistenza a chi non lo condivide. Si può però operare per ridurre il livello di “ideologia”, che condiziona il dibattito politico e sociale e lo appiattisce su slogan estremi: “pro o contro la liberalizzazione”, “pro o contro le stanze del buco”, “pro o contro il metadone”, “pro o contro la comunità”.

Si può promuovere l’apertura di spazi di confronto pragmatico, basato sui dati di realtà, sui risultati della ricerca, stimolando la crescita culturale e la responsabilità sociale della comunità, per la costruzione di percorsi ed interventi utili nella comprensione degli stili di consumo, dei comportamenti di abuso e dipendenza e nella gestione degli ambiti della prevenzione, della cura, della riabilitazione e dell’inclusione sociale.

NOTA

(1) ISTAT, Indagine multiscopo sulle famiglie «Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari», Anni 1999-2000. Collana: Informazioni, n. 12, 2002.

BIBLIOGRAFIA

[1] ISAACS D., FITZGERALD D., «Seven alternatives to evidence based medicine», British Medical Journal, 319 (7225), p. 1618, 1999.

[2] APA (American Psychiatric Association), Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 4th edition, Text Revision, American Psychiatric Press, Washington DC 2000.

[3] DI CHIARA G., IMPERATO A., «Drugs abused by humans preferentially increase synaptic dopamine concentrations in the mesolimbic system of freely moving rats», Proc. Natl. Acad. Sci. USA, 85 (14), pp. 5274-5278, 1988.

[4] DREVETS W.C., GAUTIER C., PRICE J.C., KUPFER D.J., KINAHAN P.E., GRACE A.A., PRICE J.L., MATHIS C.A., «Amphetamine-induced dopamine release in human ventral striatum correlates with euphoria», Biol. Psychiatry, 49(2), pp. 81-96, 2001.

[5] BALER R.D., VOLKOW N.D., «Drug addiction: the neurobiology of disrupted self-control», Trends Molecular Medicine 12(12), Oct 27, pp. 559-66, Epub 2006.

[6] MATTICK R.P., BREEN C., KIMBER J., DAVOLI M., «Methadone maintenance therapy versus no opioid replacement therapy for opioid dependence», Cochrane Database Syst Rev., (2): CD002209, 2003.

[7] SANTINI A., Il caso Galilei. La lunga storia di un «Errore», SEI, Torino 1995.

[8] PINCOCK S., «Nobel Prize winners Robin Warren and Barry Marshall» Lancet, 366 (9495), p. 1429, 2005.

[9] CAPLEHORN J.R., «Ultrarapid opiate detoxification. What’s all the fuss about?» Medical Journal of Australia, 167 (7), p.393, 1997.

[10] GOWING L., ALI R., WHITE J., «Opioid antagonists under heavy sedation or anaesthesia for opioid withdrawal», Cochrane Database Syst. Rev., 2006, (2): CD00, 2022.

[11] MINISTERO DELLA SOLIDARIETÀ SOCIALE, Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia 2005- 2006, Roma 2006.

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