Il bexarotene è un farmaco utilizzato per il trattamento del linfoma cutaneo a cellule T, che nel 2012 si era rivelato molto efficace nel ridurre il danno cerebrale causato dalla malattia di Alzheimer nei topi. Negli anni successivi sono stati condotti trial clinici nell’essere umano, testando questo farmaco in fasi avanzate della patologia, purtroppo senza successo. Ma se il bexarotene non ha nessun effetto sulla malattia in fase tardiva, non potrebbe invece essere utile in stadi più precoci, in modo da ostacolarne la progressione? È quanto suggerisce uno studio a firma di Rosa Sancho, responsabile della ricerca all’Alzheimer’s Research UK, nel Regno Unito, e dell’italiano Michele Vendruscolo, professore all’università di Cambridge, pubblicato su Science Advances.
Il farmaco è stato testato su esemplari del piccolo verme Caenorhabditis elegans, modificati geneticamente per produrre nel loro cervello grandi quantità di beta-amiloide, il peptide che forma gli “ammassi”, definiti placche,tipici della malattia di Alzheimer. Il bexarotene è risultato in grado di rallentare l’aggregazione di beta-amiloide già nei primi momenti, evitando così i conseguenti danni neuronali. Per via della sua capacità di contrastare l’avanzamento della patologia, il farmaco è stato proposto come “neurostatina”, in analogia con le statine, utilizzate per ridurre i livelli di colesterolo prevenendo danni cardiovascolari nei soggetti a rischio.
Ora l’obiettivo a breve termine è quello di effettuare una verifica più accurata, identificando il punto preciso in cui il bexarotene interviene durante il processo di formazione delle placche di beta-amiloide. Rosa Sancho puntualizza: “Prima di qualunque altro trial clinico, dobbiamo capire esattamente come funziona questo farmaco. Saranno necessari altri studi su modelli animali per confermarne gli effetti”. Inoltre, l’esperienza nel trattamento del linfoma cutaneo indica che il bexarotene provoca frequenti effetti collaterali, come mal di testa e nausea; la sua sicurezza nei pazienti con malattia di Alzheimer dovrà quindi essere valutata con attenzione. Da una prospettiva più generale, Vendruscolo conclude: “Il corpo ha una grande varietà di protezioni naturali contro la neurodegenerazione, ma quando invecchiamo queste difese vengono compromesse, fino a essere sopraffatte. Se riusciremo a capire come funzionano le nostre difese naturali potremo supportarle con farmaci che si comportino in modo simile”.
Riferimenti: Science Advances DOI: 10.1126/sciadv.1501244
Credits immagine: NICHD/Flickr CC