Alzheimer: ecco la molecola che rimuove le placche

Potrebbe essere il primo passo verso una terapia risolutiva per il morbo di Alzheimer: la scoperta di una molecola in grado di rimuovere le placche amiloidi nel cervello dei topi. L’annuncio, sulle pagine di Nature Communications, viene da un team di scienziati coreani, secondo i quali la Epps sarebbe efficace nel cervello dei topi. Il meccanismo d’azione non è ancora chiaro, e non è certo che possa essere utile per curare la patologia umana, tuttavia lo studio suggerisce una via da percorrere alla ricerca di una cura.

Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza, i cui primi sintomi possono comparire verso i 40 anni di età. All’origine, vi è l’accumulo anomalo nel cervello di una proteina, la beta-amiloide, in forma di placche. Queste formazioni riducono la funzionalità delle sinapsi, vale a dire le strutture che permettono ai neuroni di comunicare tra di loro, deteriorando l’apprendimento e la memoria.

Attualmente, non esistono cure per l’Alzheimer, ma solo trattamenti che ne attenuano i sintomi. Alcuni farmaci sembrano in effetti in grado di fermare la formazione delle placche, ma solo se la malattia viene trattata nello stadio precoce. I ricercatori della Korea Institute of Science and Technology (Kist) hanno ora scoperto che la molecola Epps può funzionare anche quando le placche sono già formate. L’hanno somministrata per circa due settimane a topi affetti da Alzheimer che, nei tre mesi successivi, sono risultati più efficienti nel risolvere alcuni problemi di apprendimento e di memoria, come per esempio percorrere un labirinto. Gli esami hanno poi mostrato che nel cervello degli animali le placche amiloidi erano regredite.

“La ricerca è interessante dal punto di vista di un medico, anche se ancora non sappiamo se la rimozione di placche amiloidi possa essere utile negli esseri umani”, ha dichiarato alla Bbc Tom Dening dell’Università di Nottingham.“Il cervello dei topi è molto diverso da quello degli esseri umani. Per questo non possiamo dire che questa ricerca sugli animali porterà a qualcosa di realmente utile alla sperimentazione clinica”.

Riferimenti: Nature Communications Doi:10.1038/ncomms9997

Credits immagine: ZEISS Microscopy/Flickr CC

 

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