Febbre di Lassa, cosa sta succedendo in Nigeria

(Credit immagine: C. S. Goldsmith-Cdc via Wikimedia Commons)

Oltre 1100 casi sospetti (353 confermati, 8 probabili) e 110 morti (86 tra i casi confermati e probabili) dal primo gennaio segnalati durante la più grande epidemia di febbre di Lassa mai riportata in Nigeria, lì dove nel 1969 venne identificato per la prima volta il virus responsabile della malattia. Nell’Africa Occidentale dove la febbre di Lassa è endemica. Un’epidemia, si legge sul sito del Nigeria Centre for Disease Control (NCDC), senza precedenti, che ha portato alla mobilitazione di tutte le forze possibili per cercare di combattere e arginare la diffusione della malattia, agendo – in assenza di un vaccino – sulla prevenzione per il rispetto delle norme igieniche, la rapida rivelazione del virus e il trattamento tempestivo.

La febbre di Lassa è una malattia virale emorragica (virus della famiglia Arenaviridae) trasmessa agli esseri umani da cibo o oggetti contaminati da escrementi di roditori (genere Mastomys). La trasmissione uomo-uomo è possibile, per via sessuale o per contatto con fluidi biologici infetti, ma è da escludersi quella via aerea. Nell’80% dei casi, riporta l’Organizzazione mondiale della sanità, l’infezione non dà sintomi, ma in un caso su cinque può portare a un quadro grave, dove a febbre, debolezza, mal di testa, dolori muscolari nausea vomito e diarrea possono accompagnarsi emorraggie dalla bocca, dal naso, dalla vagina e nel tratto gastrointestinale, tremori, convulsioni, disorientamento fino a coma. Una sintomatologia che ricorda quella di ebola, in tempi non lontani, con l’epidemia in Africa occidentale tra il 2014 e il 2016. L’ultima epidemia di febbre di Lassa che si è abbattuta in Nigeria ha un tasso di fatalità (per i casi confermati e probabili, pari a 86 morti) che sfiora il 24%, scrive il NCDC. Mediamente, riporta l’Oms, tra i casi gravi ospedalizzati, il tasso di fatalità si aggira intorno al 15%, in totale intorno all’1%.

Contro la febbre di Lassa funzionano la prevenzione – in primo luogo evitando la presenza dei vettori del virus nelle vicinanze e in prossismità delle abitazioni, mettendo in campo tutte le azioni che ne possano scoraggiare l’avvicinamento, come tenere un gatto per esempio, ma anche osservando le norme igieniche – e il trattamento con antivirali, quali la ribavirina, e terapie reidratanti purché questo sia tempestivo e somministrato all’inizio della malattia. Non funzionano perché non esistono ancora e – perché svilupparli, specie in queste zone e queste malattie non è semplice, ricorda anche la Bbc – i vaccini (così come era accaduto a suo tempo con l’epidemia di ebola).

Per cercare di arginare l’epidemia – il pericolo oggi, oltre che in Nigeria, è soprattutto per il Benin e il Camerun – sono stati potenziate la sorveglianza, le capacità di trattamento e assistenza di alcuni centri, nonché incentivate le attività di comunicazione e (ri)formazione del personale sanitario sul rischio di contagio e gestione dei casi sospetti. “L’NCDC – si legge sul sito stesso dell’istituzione – chiede a tutti i nigeriani, specialmente quelli che vivono negli stati di Edo, Ondo e Ebonyi, di continuare a concentrarsi sulla prevenzione per scongiurare l’accesso dei topi al cibo. Per coloro che si ammalano con febbre, è importante recarsi presso una struttura sanitaria per eseguire un test e determinare la causa della febbre, prima del trattamento”.

Nota: articolo editato l’8 marzo, per precisare i dati epidemiologici relativi ai casi confermati o meno in laboratorio.

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