Giornata della Memoria 2020, lo storico Barberis: “Attenzione ai ‘portatori sani’ e inconsapevoli di razzismo”

razzismo

Alberto Sed, Piero Terracina, Franco Schoenheit: uno alla volta si vanno spegnendo gli ultimi superstiti del genocidio nazista in Italia, all’epoca bambini o adolescenti. Con la loro scomparsa, a 75 anni dalla fine della guerra, il compito di tramandare la memoria della Shoah rimane agli storici. Ed è un compito particolarmente importante in un momento in cui si osserva una recrudescenza, in Europa e nel mondo, di fenomeni di razzismo e antisemitismo. Galileo ne ha parlato con lo storico Walter Barberis, che nel saggio Storia senza perdono (Einaudi 2019) affronta proprio il tema della memoria della Shoah e della sua evoluzione nel tempo.

Il 27 gennaio ricorrono i 75 anni dalla liberazione di Auschwitz da parte delle truppe alleate. Mentre scompaiono i testimoni diretti, come cambia il modo di tramandare la memoria della Shoah?

Inevitabilmente, si chiude una fase, l’era del testimone, che si era aperta con il processo ad Eichmann nel 1961, dopo almeno un decennio di silenzio. Da allora, grazie ai superstiti che decisero di venire allo scoperto si è iniziato a parlare di Shoah non come danno collaterale della guerra ma come fatto specifico, intrinsecamente razzista e genocida.

Le testimonianze dei sopravvissuti hanno squarciato un muro di reticenze e indifferenza generalizzato, il desiderio più o meno conscio di rimozione?

Sì, e grazie al loro impegno la memoria si è fatta spazio ed è cresciuta nel tempo. Poche decine di migliaia di persone in tutto il mondo che quasi per caso erano sopravvissute hanno iniziato a girare per le scuole e a raccontare le loro esperienze “eccezionali” di “salvati”, a fronte della grande maggioranza di vittime che non possono più raccontare.

Dopo il silenzio iniziale e lo scoperchiamento della verità, lei parla però anche di una fase di ipertrofia della memoria. Cosa intende, se ne parla troppo?

Il problema è di come se ne parla, non andando in profondità. A volte sento dichiarazioni, anche delle autorità, che dicono: “Non se ne parla mai abbastanza”. Ma il problema è piuttosto che bisogna usare sì linguaggi coinvolgenti, ma che spieghino e responsabilizzino: adottare strumenti didattici più affinati. La storia degli ebrei è una storia che riguarda tutti, anche perché il genocidio non ha colpito solo loro, ma anche due milioni di avversari politici, omosessuali, testimoni di Geova, Rom.

Non basta la testimonianza diretta dei sopravvissuti?

Le testimonianze naturalmente portano con sé una grande emozione, che è utile a sollecitare una riflessione, ma non possono dare conto della ragione per cui si sono svolti i fatti. E soprattutto non possono dar conto delle ragioni profonde dell’antisemitismo, che esiste ancora e in alcuni paesi è persino più forte rispetto alla Germania. I sopravvissuti non sanno perché e come è avvenuto tutto ciò, ma noi abbiamo bisogno di saperlo, di capirlo. Perché un regime decide scientificamente di sterminare una popolazione? E se è stata una malattia mortale, il virus è ancora in circolazione o si può considerare sconfitto? A questo tipo di domande il testimone non è abilitato a dare una risposta: sono altri che devono fare la diagnosi del male.

Il moltiplicarsi di episodi di intolleranza e di più o meno esplicito razzismo ci dice che il male non è stato sconfitto. C’è il rischio che la storia si ripeta?

È poco verosimile che si ripresenti un nuovo Hitler, ma siamo pieni di portatori sani di questi virus: l’indifferenza, il pregiudizio, l’intolleranza verso qualcuno che sia diverso, compresi ancora oggi gli ebrei. Per questo serve un’alleanza fra la raccolta di testimonianze, di cui ormai abbiamo un ampio materiale scritto, documentaristico, ma anche cinematografico, la storia e le scienze sociali, compresa la psicologia, per comprendere quella fase storica. Perché una cosa è certa: non si è trattato di un gruppo di pazzi che ha ucciso. C’è stato il consenso, la passività di milioni di persone.

Chi sono oggi i “portatori sani” di razzismo?

Gli inconsapevoli, quelli che dicono: “Io razzista? Ma quando mai”. Ma io il razzismo l’ho visto con i miei occhi quand’ero bambino, a Torino, nei confronti dei meridionali: ho sentito persone ritenute autorevoli e per bene dire che non si doveva affittare loro le case perché usavano il bidet per coltivare il prezzemolo. Oggi Torino è considerata la terza città meridionale in Italia dopo Napoli e Palermo, proprio per il numero di immigrati dal Sud, e in questo processo di integrazione un ruolo chiave l’ha svolto il lavoro, che ha coinvolto tutti ed emancipato molta gente.

E oggi qual è la situazione?

Oggi purtroppo c’è un ritorno isterico a un razzismo antico, che recupera anche vecchi pregiudizi antisemiti. Lo vedo qui a Torino anche fra diverse comunità straniere: i rumeni sono molto razzisti nei confronti degli albanesi e viceversa. Ed è sbagliato pensare che questa cosa non ci riguardi: non molto tempo fa abbiamo avuto a poche centinaia di chilometri da noi, in Europa dell’Est, guerre e genocidi su base etnica.

Ma quale integrazione è possibile?

Non dobbiamo dissolverci in una brodaglia omogenea, creare una centrifuga in cui ognuno perde la sua identità, ma cercare di comporre un’insalata mista, in cui tutte le essenze coesistono e interagiscono, ma la rucola rimane rucola, non scompare. E per questo abbiamo bisogno di una storiografia onesta, che non sia di destra o di sinistra ma oggettiva, come le altre scienze. Purtroppo, finora abbiamo avuto una storiografia dei vincitori, e ora si cerca di fare la storiografia dei vinti. Sono consapevole che la verità non esista, ma la scienza ha come obiettivo di avvicinarsi alla verità, e questo dovrebbe valere anche per la storia.

Recentemente in visita ad Auschwitz, Angela Merkel ha citato Primo Levi: «È successo. Dunque può succedere di nuovo». Ma dal 2015, il Memoriale degli Italiani realizzato proprio da Levi e altri esponenti della cultura italiana sopravvissuti alla deportazione nel campo è stato smantellato perché ritenuto non conforme dalle autorità polacche. Il tutto nell’indifferenza generale, nonostante gli appelli di storici e intellettuali italiani e tedeschi. Come giudica questo episodio?

È un fatto estremamente negativo. Noi italiani dovremmo pretendere il riallestimento del memoriale, e forse ci si sta già lavorando. Certamente i polacchi non vogliono ammettere di avere la coscienza sporca, perché da parte della Polonia non c’è stata solo neutrale indifferenza, ma colpevolezza: le autorità consegnarono tutti i loro ebrei ai tedeschi. Anche perché lì c’era una comunità ebraica molto numerosa e, per contro, un forte antisemitismo. Molto più che in Italia, dove tutto sommato gli ebrei erano pochi e ben integrati nella società: molti di loro erano anche fascisti.

Foto: Ghetto di Varsavia 1943: l’immagine simbolo della Shoa’: un bambino di sette anni che alza le mani in segno di resa. WikiImages da Pixabay

2 Commenti

    • Caro Giuseppe, come si dice nell’articolo, purtroppo il virus dell’intolleranza (e anche quello della brutalità cieca) continua a circolare nelle società umane, e la Shoah, sebbene di proporzioni ineguagliate, non è stato certo l’ultimo genocidio o eccidio di massa nella storia. La lista si allunga di continuo e non possiamo nominarli tutti… Per questo, come dice lo storico Berberis, dobbiamo ricordare e soprattutto studiare, cercare di capire come e perché esseri umani nella civilissima Europa possano aver prodotto simili orrori, averli pianificati e realizzati a livello industriale, nell’indifferenza generale. Ed è solo il primo passo per evitare che si ripetano.

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