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Hiv: sei questioni cui prestare attenzione

“A volte ho l’impressione di lottare per una vita che non ho il tempo di vivere”. Parla così Matthew McConaughey nei panni di Ron Woodruff, cowboy texano che contrasse l’HIV negli anni ’80, definendo la propria condizione nel film vincitore di premi oscar Dallas Buyers Club che ne racconta la vicenda. Dopo oltre trent’anni dalla sua scoperta, il virus dell’Hiv è ancora un caso aperto, lontano dall’essere risolto.

Alla fine del 2013 erano oltre 35 milioni le persone sieropositive, con 2.3 milioni di nuove infezioni ogni anno. Quella che è oggi una pandemia globale non riesce a vedere una fine non solo per le innumerevoli difficoltà scientifiche che si riscontrano, ma anche per i falsi miti che la caratterizzano. Chi si occupa di Hiv e Aids, nel tentativo di eradicare il virus, spesso lotta anche contro questi pregiudizi difficili da abbattere. Proprio per questo Jay Levy, uno dei primi ricercatori a isolare il virus e direttore del Laboratory for Tumor and Aids Virus Research presso l’Università della California di San Francisco, ha deciso di pubblicare nella rivista scientifica Trends of Molecular Medicine alcuni concetti chiave che a suo parere non sono stati abbastanza evidenziati in oltre trent’anni di lotta al virus.

L’obiettivo dichiarato del ricercatore è questo: non smettere di discutere del virus e soprattutto farlo nei giusti termini, cercando di focalizzare quindi l’attenzione di scienziati e non solo nella corretta prospettiva. Dalla sua scoperta ad oggi, a volte si parla di Hiv e Aids tralasciando idee potenzialmente benefiche sottolineandone invece altre sbagliate, ribadisce lo scienziato nel paper intitolato: Sfatare miti e concentrarsi su concetti importanti nella patogenesi dell’HIV.

Nel suo studio, il ricercatore statunitense tocca sei argomenti chiave inerenti all’Hiv. Argomenti semplici e proprio per questo così potenzialmente efficaci nell’offrire spunti per nuove spiegazioni e strategie per la gestione dell’Hiv /Aids. Ecco quali sono: L’infezione da Hiv è una diagnosi universalmente fatale? La risposta immunitaria innata del corpo è importante come la risposta immunitaria adattativa? Come fanno le cellule CD8 + T a combattere l’Hiv? Quando dovrebbe essere somministrata la terapia antiretrovirale? Quali strategie dovrebbero essere considerate per un vaccino contro l’Hiv? Quali approcci dovrebbero essere incoraggiati per una cura per l’Hiv? Dare risposte esaurienti, sottolinea lo stesso Levy, non è facile. Ma la sfida è anceh questa.

Dalla sua esperienza nell’ambito, il ricercatore sottolinea così che se all’inizio la diagnosi di sieropositività era una condanna a morte ora non lo è più. Per alcuni, l’Aids non sempre insorge oppure lo fa con anni di ritardo. “Possiamo imparare molto sulla prevenzione delle malattie e infezioni studiando queste persone eccezionali che sono sopravvissute senza Aids o che hanno scongiurato l’infezione”, afferma il ricercatore.

Per quanto riguarda il sistema immunitario, la prima linea di difesa contro i virus, sappiamo che gioca un ruolo fondamentale, soprattutto considerando le persone che sono state più volte esposte al virus ma non ne sono state infette. Si tratta di un insieme complesso di cellule con meccanismi multipli atti ad abbattere un agente patogeno, e studiarli tutti in dettaglio permetterebbe di capire meglio i meccanismi dell’infezione e gli strumenti per prevenire la malattia e combattere la malattia (compreso il ruolo dei linfociti CD8, che si crede possano controllarte la malattia uccidendo le cellule infette e secernendo dei fattori che inibiscono il virus salvando la cellula ospite).

Passando al fronte terapie, continua il ricercatore, sebbene non si possa negare il successo che hanno avuto i farmaci antiretrovirali nel ridurre la carica virale e aiutare le persone a vivere una vita relativamente normale con l’Hiv, il ricercatore si mostra un po’ scettico. Questi farmaci prescritti spesso sin dall’inizio hanno effetti collaterali a lungo termine, che includono disturbi ai reni e al fegato. “È come dare la chemioterapia per sempre”, commenta. E anche la prospettiva di utilizzare la terapia come prevenzione va valutata attentamente, perché ad oggi non sappiamo ancora per esempio potrebbe dare origine allo sviluppo di ceppi resistenti.

Sulla prospettiva di cura e un vaccino, poi, secondo Levy purtroppo siamo ancora in alto mare, sebbene apprezzi approcci di editing genetico che mimino gli effetti del paziente di Berlino (il paziente malato di leucemia liberato dal virus in seguito a un trapianto di midollo) e creda negli approcci che cercano di combattere il virus aumentando la risposta del sistema immunitario contro l’Hiv. Proprio a tal riguardo per il ricercatore anche i tentativi di sviluppare un vaccino contro l’Hiv dovrebbe non solo tendere a realizzare anticorpi efficaci per neutralizzare il virus ma anche a potenziare la risposta antivirale delle cellule del sistema immunitario, soprattutto quello innato.

“I ricercatori”, conclude Levy: “hanno bisogno di esaminare il punto di partenza delle loro osservazioni e di valutare se ciò che stanno vedendo è davvero la risposta a qualcosa o è parte di ciò che c’è. Dobbiamo chiederci se stiamo trascurando o tralasciando ciò che potrebbe essere una risposta migliore perché stiamo afferrando qualcosa che ci appare buono già da oggi”.

Riferimenti: Trends in Molecular Medicine DOI: http://dx.doi.org/10.1016/j.molmed.2015.03.004

Credits immagine: NIAID/Flickr CC

 

Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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