Il giornalismo di Kapuscinski

John WallerFabulous ScienceFacts and fiction in the History of Scientific DiscoveryOxford University Press, 2002pp. 308, euro 22,99Nato in Bielorussia nel 1932 ma cittadino polacco dalla nascita, Kapuscinski è considerato uno dei più grandi reporter viventi. Unico corrispondente dall’Africa (dall’intero continente) dell’agenzia di stampa PAP, autore di molti libri a metà tra il racconto di viaggio e il reportage giornalistico, Kapuscinski racconta in questo tascabile dal piccolo formato, curato da Maria Nadotti, la sua concezione di giornalismo. Il libro è una breve raccolta di suoi interventi ad alcuni recenti convegni nel nostro paese.Secondo la curatrice, la chiave del giornalismo di Kapuscinski, oltre alle sue competenze professionali e culturali, è la scelta di privilegiare la “presa diretta” dei paesi che deve raccontare. Il privilegio della chiacchiera informale con la gente comune, la capacità di parlare le lingue del paese in cui si opera, “sparire tra la gente”, condividere le loro condizioni di vita, farsi prendere per uno del posto, “evitare con cura le secche degli incontri istituzionali”. Come racconta l’autore: “ Per noi giornalisti, che lavoriamo con le persone, che cerchiamo di comprendere le loro storie, che dobbiamo esplorare e investigare, l’esperienza personale è naturalmente fondamentale. La fonte principale della nostra conoscenza giornalistica sono ‘gli altri’. Gli altri sono coloro che ci dirigono, ci danno le loro opinioni, interpretano per noi il mondo che tentiamo di capire e descrivere. Non c’è giornalismo possibile fuori della relazione con gli altri esseri umani” (p. 38). Capacità quasi scomparse in una professione ormai così rapida e multimediale come la nostra. Antenne e cellulari satellitari, comunicati stampa che guidano ogni incontro con realtà politiche e culturali “altre”, ogni racconto di un inviato, specialmente televisivo ma sempre più spesso anche di chi scrive per i quotidiani, è un minestrone di informazione pronta all’uso con sporadici tocchi di colore, come una breve visita al mercato locale o una chiacchierata con il tassista del luogo. Contro ogni idea di ‘par condicio’, secondo Kapuscinski il vero giornalismo è invece intenzionale, vale a dire “quello che si dà uno scopo e che mira a produrre una qualche forma di cambiamento” (p. 39). In questo senso, “oggi per capire dove stiamo andando non bisogna guardare alla politica, bensì all’arte. È sempre stata l’arte a indicare con grande anticipo e chiarezza la direzione che via via stava prendendo il mondo e le grandi trasformazioni che si preparavano. Serve di più entrare in un museo che parlare con cento politici di professione (…) Come l’arte postmoderna insegna, forse ci si potrebbe accorgere che c’è spazio per tutti e che nessuno ha più diritto di cittadinanza di altri” (p. 12). E infatti i migliori giornalisti citati dal collega polacco sono stati anche scrittori (o viceversa): Mark Twain, Ernest Hemingway e Gabriel Garcia Marquez.Possiamo aggiungere a questo mondo di scrittori, giornalisti e premi Nobel, lungo la frontiera tra romanzo e reportage, anche alcune delle opere di Kapuscinski, che hanno ormai raggiunto uno status di culto anche nel nostro paese. A nostro avviso, le più belle sono: Imperium, sulla crisi dell’Unione Sovietica; Ebano, storie dall’Africa e Shah-in-Shah, sulla rivoluzione khomeinista in Iran. Tutti pubblicati in Italia dalla casa editrice Feltrinelli.

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