Il gran ritorno della canapa

A dare il “la” è stato il maestro Claudio Abbado indossando – alla prima del “Così fan tutte” diretto a Ferrara – un frac in fibra di canapa. Niente a che vedere con i rustici tessuti che circolavano nelle abitazioni rurali fino al dopoguerra. Al contrario, un abito fresco e impeccabile uscito dall’atelier di Giorgio Armani, frutto di innovative sperimentazioni condotte su un’antica coltura. E proprio a Ferrara, zona vocata alla produzione di questa pianta (30mila gli ettari coltivati agli inizi del Novecento) si è tenuto l’8 febbraio il convegno “Canapa: ritorno al futuro” promosso dal Consorzio Canapaitalia. Nel corso dei lavori sono stati presentati i dati di una recente sperimentazione, da cui sono emerse le qualità della canapa come “materiale” incredibilmente versatile e rispettoso dell’ambiente.

Dalla canapa, nota ai cinesi fin dal III millennio a.C., si possono estrarre fibre tessili, carta, legno, olio alimentare e combustibile. I suoi semi sono un nutrimento ricco e altamente digeribile, le sue radici prevengono la costipazione del terreno ed è un diserbante naturale perché la sua crescita rapida e fitta “soffoca” le erbacce. In più l’alta resa in termini di biomassa ne fa un potenziale concorrente degli oli petroliferi, la cellulosa del fusto può essere polimerizzata per ottenere plastica biodegradabile e l’olio è un ottimo solvente per vernici e smalti. Se tutto ciò non bastasse, i principi attivi della canapa hanno ottime qualità terapeutiche. Ma qui iniziano i problemi: il più importante di questi principi attivi è il Thc (tetraidrocannabinolo), una sostanza psicoattiva che induce eccitazione euforica accompagnata da stati allucinatori e distorsioni percettive. Insomma una droga. E infatti la Cannabis indica o canapa indiana, la pianta della marijuana e dell’hashish, altro non è che una varietà dell’innocua Cannabis sativa, così nota ai nostri nonni.

Per questa ragione, già minacciata dall’avvento delle fibre sintetiche, negli anni Sessanta la canapa fu messa al bando in quasi tutto il mondo occidentale. Nel 1961 l’Italia, firmando il trattato dell’Onu che classificava la canapa come stupefacente, ne impose l’eradicazione completa entro il 1986. Il colpo di grazia arrivò con la legge Jervolino-Vassalli (n. 162/90, Dpr 309/90), che criminalizzava la coltivazione della canapa identificando con il termine “canapa indiana” qualsiasi varietà di Cannabis. D’altra parte le differenze morfologiche tra le sottospecie di C. sativa sono così poco definite che il legislatore non poteva elencare una serie di caratteri secondari (dipendenti oltretutto dalle condizioni climatiche), e tutta la canapa rimasta “in campo” fu bruciata.

In questi ultimi anni però si sta facendo sempre più urgente la necessità di reperire risorse in maniera ecologica, e il mercato si orienta gradualmente verso i prodotti naturali. Non è dunque un caso se, a partire dal 1971, la Comunità Europea ha promulgato una serie di regolamentazioni sulla coltivazione della canapa. Unica restrizione: la percentuale di Thc deve rimanere al disotto dello 0.3% (regolamenti Cee 619/71; Cee 1164/89; Ce 2814/98). Si tratta di un criterio molto ragionevole, se si pensa che la produzione di Thc da parte della pianta è elevato solo nei climi aridi a caldi, mentre le varietà di canapa da fibra che venivano tradizionalmente coltivate alle latitudini temperate ne contengono ben poco.

Il prossimo passo avanti lo farà ancora l’Unione Europea che, come ha annunciato il ministro De Castro al convegno di Ferrara, approverà entro pochi mesi una nuova regolamentazione per canapa e lino: anche da noi dovrebbero cadere le barriere proibizionistiche, fermo restando il rispetto dei limiti Ue per le percentuali di Thc. L’industria sembra essere molto ricettiva, ma sarà necessario provvedere anche alla costruzione di impianti di trasformazione (dalla pianta ai semilavorati), per ora completamente assenti in Italia.

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