Il razzismo nella genetica

La genetica e la genomica sono considerate le chiavi per il futuro di quella che viene definita la salute globale. Centinaia di laboratori, attualmente, sono alla ricerca delle radici genetiche delle malattie e dei tratti caratteristici dello sviluppo. Sebbene abbiano raggiunto traguardi molto importanti, si stanno scontrando con un problema che potrebbe mettere in crisi l’intero sistema di ricerca, e che pone una nuova conditio sine qua non: bisogna allargare gli studi a tutti i gruppi etnici del pianeta, o i risultati di tanti, costosi sforzi varranno per i pochi fortunati di origine europea. 

Al momento, infatti, gli studi di associazione genomica (Gwas, Genome-Wide Association Studies), in cui vengono comparati i codici genetici di centinaia di migliaia di persone per individuare le differenze, si concentrano quasi esclusivamente sulle popolazioni provenienti dall’Europa. Lo aveva dimostrato – come ricorda Wired.com – già nel 2009 una review realizzata dal David Goldstein della Duke Univeristy; secondo quella analisi, il 96 per cento dei Gwas riguarda persone con antenati europei. Il restante 4 per cento degli studi se lo spartiscono tutti gli altri gruppi etnici. Che nel complesso, però, rappresentano circa l’80 per cento della popolazione mondiale. Inoltre, le indagini su queste altre popolazioni prendono spesso in considerazione campioni ristretti, e solo una minima parte ha incluso popolazioni di origini africane. 

Il campione europeo è preferito perchè è più facile da reclutare, quasi sempre vive in paesi dotati di strutture organizzate, è interessato (dove si muore di fame o di malattie infettive o neglette si pensa prima ad altro) e garantisce una certa aderenza alla terapia. Inoltre, probabilmente, include popolazioni che interessano di più le farmaceutiche che finanziano questi studi.

Questo è un grande problema, perché quello che si scopre come valido per una popolazione non è altrettanto valido per le altre, come mostra la più grande analisi mai eseguita sul legame tra varianti genetiche ed etnia, condotta da Carlos Bustamante della Stanford University e pubblicata recentemente sui Proceedings of National Academy of Sciences

A far riflettere i ricercatori è la cosiddetta ereditabilità mancante: le varianti genetiche identificate fino a oggi spiegano solo una ridotta percentuale delle caratteristiche e dei fattori legati a una determinata condizione. Prendiamo l’altezza degli individui, per esempio: al momento è noto appena il 10% di ciò che la determina. Quando sono cominciati gli studi di associazione genomica, i ricercatori speravano di poter spiegare questa ereditabilità mancante attraverso le varianti genetiche comuni, ovvero le mutazioni condivise da un numero elevato di persone. 

Ma così non è stato: ogni variante comune è legata soltanto a minuscole frazioni di rischio per una determinata malattia. Così ora i ricercatori si stanno concentrando sulle varianti rare, quelle condivise da un numero inferiore di persone ma con effetti estremamente importanti e riconoscibili. Diversamente da quelle comuni, che sono presenti in gruppi etnici anche molto lontani tra di loro, queste varianti rare sembrano essere gruppo-specifiche

Ecco perché i genetisti di tutto il mondo devono studiare un insieme di popolazioni molto più ampio rispetto a quanto avviene oggi, che includa anche le minoranze etniche, ricorda lo stesso Bustamante in un commento pubblicato oggi su Nature: “Se non si conducono studi che includono più gruppi etnici emergerà un quadro solo parziale di quali varianti siano importanti e la genomica andrà a beneficio di pochi privilegiati. In questo modo corriamo il rischio di perpetuare le già esistenti disparità in campo medico-sanitario. Le popolazioni che hanno più bisogno non possono essere le ultime a beneficiare della ricerca genetica”.

Via Wired.it

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