Il ritorno del nucleare

I segni di un ritorno al nucleare sono evidenti in tutto il mondo. Da Koeberg, in Sud Africa a Sellafeld, nel Regno Unito si moltiplicano le centrali che vengono ristrutturate, riattivate o ampliate. Un po’ ovunque, politiche di “rinascita nucleare” promettono di porre rimedio definitivamente a diversi problemi irrisolti: l’aumento rapidissimo della domanda di energia, l’incremento del prezzo dell’energia elettrica, la dipendenza dal petrolio mediorientale, l’esaurimento delle risorse. Venendo incontro anche a un’altra non indifferente esigenza: ridurre l’emissione di gas serra e fermare il surriscaldamento globale, come imposto dagli accordi di Kyoto. “L’espansione dell’energia nucleare negli Stati Uniti è una delle componenti principali della nostra politica energetica nazionale”, si legge anche nel programma energetico dell’amministrazione Bush. “Il nucleare dovrebbe contribuire a rendere indipendente energicamente l’Europa”, gli fa eco dall’altra parte dell’Atlantico Loyola De Palacio, responsabile per il Trasporto e l’Energia della Commissione Europea.

Anche in Italia, dove con il referendum del 1987 si è messa una pietra sopra a qualsiasi impiego del nucleare, il tema è stato al centro dell’attenzione politica: nei giorni scorsi in Parlamento era stato formulato un emendamento alla legge di ratifica del Protocollo di Kyoto, che pure esclude il ricorso a questa fonte energetica, per consentire alle imprese italiane di partecipare alla costruzione di impianti elettronucleari nell’Europa dell’Est. Un tentativo di accumulare crediti per la riduzione delle emissioni, secondo una delle strategie a disposizione dei Paesi sviluppati per rientrare nei limiti sanciti dal protocollo internazionale sul clima: invece di diminuire le proprie emissioni inquinanti, si può aiutare un altro Paese a ridurre le sue. Ma anche, come ha sostenuto la maggioranza, un modo per offrire nuove opportunità di lavoro alle imprese italiane e, al tempo stesso, di migliorare la sicurezza delle centrali dell’ex sovietico blocco, costruite perlopiù con una tecnologia ritenuta obsoleta già vent’anni fa. Ma il tentativo non è passato inosservato. Le associazioni ambientaliste, Greenpeace e Wwf in prima linea, sono insorte e, in Parlamento, l’opposizione ha ricordato come la Convenzione sul Clima di Marrakech abbia stabilito che non si possono raccogliere crediti per la riduzione delle emissioni ricorrendo a soluzioni nucleari. Risultato: in sede di Commissioni Esteri e Ambiente l’emendamento è stato ritirato ma il Parlamento dovrà confermare questa decisione.

“L’eventualità di un ritorno al nucleare in Italia è più che remota”, afferma Piero Risoluti, l’ingegnere che ha diretto, fino al suo scioglimento, la task force dell’Enea (all’epoca Ente Nazionale Energia Atomica, oggi Ente per le Nuove tecnologie, l’Energia e l’Ambiente) per l’individuazione di un sito unitario per la raccolta delle scorie prodotte dall’attività nucleare in Italia fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. “Mentre nei Paesi europei dove le centrali sono rimaste in esercizio un ritorno è possibile in tempi ragionevoli” spiega, “in Italia la ripresa è problematica, sia per motivi politici, sia per la perdita della capacità progettuale”. “Tutto ciò richiederebbe tempi lunghi e una chiara volontà politica”, va avanti Risoluti, ricordando che per costruire una centrale sono necessari, dai primi rilevamenti alla realizzazione, circa 10 anni. Senza contare il cosiddetto “regulatory climate”, cioè l’insieme di passaggi burocratici che allungano i tempi e aumentano significativamente le spese. Tra l’altro, per raggiungere i risultati del Protocollo di Kyoto, sarebbe necessario impiantare non una, ma un parco di centrali, circa il 20-30 per cento del numero totale di quelle esistenti sul territorio nazionale. Insomma, anche se si decidesse oggi di tornare al nucleare, i primi risultati si potrebbero avere solo fra 10-15 anni.

I nuovi impianti, secondo l’ingegnere, non presenterebbero problemi di sicurezza. “Oggi le centrali sono altamente affidabili. Hanno tempi di vita di 40 anni e sono standardizzate a livello internazionale: tutti i reattori moderni sono del modello Lwr (light water reactor)”. Non sarebbe un problema neanche l’eventualità di un esaurimento delle miniere di uranio, il combustibile che alimenta le centrali. L’abbondanza dei giacimenti ha addirittura spinto ad abbandonare il progetto dei reattori veloci, che avrebbero prodotto più combustibile di quello che consumano, diventando praticamente indipendenti dalla miniera.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here