Il virus di ebola può sopravvivere per nove mesi

Ebola torna a far paura, perché il virus può sopravvivere più a lungo di quanto creduto nei sopravvissuti, e dare origine a complicazioni gravi.

Lo dimostra il caso di Pauline Cafferkey, l’infermiera scozzese che dopo nove mesi essere (apparentemente) guarita da ebola è stata ora ricoverata in gravi condizioni al Royal Free Hospital di Londra. Nel suo liquido spinale tracce di ebola.

Nello stesso tempo, uno studio pubblicato sul New England Journal Medicine, conferma che tracce del virus possono essere rivelate nello sperma fino a nove mesi dopo aver contratto l’infezione. Ma in generale, avverte l’Oms, tracce del virus possono persistere a lungo in altre zone del corpo, come negli occhi, nel latte materno, nel fluido amniotico, nella placenta e nel sistema nervoso centrale. Tanto che ora l’urgenza è tutelare i sopravvissuti: oltre 17 mila.

Cosa significa tutto questo? Sostanzialmente due cose. Da una parte la persistenza del virus nel corpo, soprattutto nel liquido seminale, mette a rischio la ri-emergenza delle infezioni per trasmissione sessuale, proprio quando si cominciava a credere di aver vinto la battaglia (sono due settimane che nessun nuovo caso di infezione viene segnalato dall’Oms, sebbene alcuni giornali parlino di due nuovi casi nei giorni scorsi).

Ma di per sé, per quanto reale, questa probabilità nei fatti sembra comunque essere bassa, spiegano dall’Oms, portando a esempio zone dove ebola ha colpito pesantemente e che eppure, dopo la fine dell’epidemia, non hanno avuto ri-emergenza delle infezioni (come ci si aspetterebbe, non dando così per scontato anche l’uso di condom). Inoltre non è neanche chiaro quanto rintracciare la presenza di materiale genetico virale nel liquido seminale renda lo sperma infettivo, precisano gli esperti. Che il virus potesse essere rivelato per mesi nello sperma era già noto, quello che era certo è esattamente per quanto e il continuo monitoraggio dei sopravvissuti aiuterà a chiarirlo. 

Ma quello che soprattutto sottolineano i nuovi studi e il caso dell’infermiera scozzese è questo: non sappiamo ancora quali possano essere gli effetti del virus sul lungo termine. Quello che stiamo osservando è un aspetto nuovo dell’evoluzione delle infezioni di ebola, probabilmente alquanto raro, visto che eventi simili non sembrano essere stati ben documentati in Africa occidentale, dove i sopravvissuti sono migliaia.

Quello dell’infermiera sembra inoltre un caso che mette a rischio più il singolo che la comunità con cui interagisce, per le modalità con cui si presentano le complicazioni. Non è certo infatti che la Cafferkey sia contagiosa, sebbene sul fatto che siamo di fronte a complicazioni da precedente infezione del virus i medici sembrano d’accordo.

Certo è che le conseguenze possono essere più lunghe di quanto creduto finora e apparire in modalità in parte diverse da quelle che caratterizzano l’infezione acuta, come ha spiegato al New York Times Stuart T. Nichol del Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta: “Questa non è una ricorrenza di febbre emorragica da ebola; questo è chiaramente una sindrome simil-meningite, una sindrome neurologica, che è il risultato della persistenza del virus”.

Complicazioni più comuni, come dolori articolari, problemi agli occhi o alle orecchie, sono stati più frequentemente rivelati in Africa occidentale, ma forse solo perché casi più complicati non sono stati registrati. Ovvero: non conoscendo gli effetti sul lungo termine, e le complicazioni da ebola, anche laddove si sarebbero manifestate, potrebbero non essere state correlate alle infezioni, perché ritenute estranee.

Allo stesso modo non è sempre facile cercare di capire a cosa siano esattamente dovuti i casi di morti nei sopravvissuti. In sostanza: potremmo aver avuto diverse complicazioni da ebola ma non averle registrate come tali.

Un’altra ipotesi, spiegano gli esperti, è che manifestazioni così complicate si abbiano nei casi di gravissime infezioni, vale a dire nei casi in cui la presenza del virus è così massiccia che alcune particelle potrebbero essere sopravvissute nei siti non raggiunti dal sistema immunitario, e persistere fino a causar danno.

Casi così gravi in Africa occidentale potrebbero non essere sopravvissuti tanto da permettere la comparsa di queste manifestazioni a lungo termine, azzardano gli esperti. Un’altra ipotesi è che i trattamenti sperimentali, come quelli con anticorpi, abbiano rimosso il virus dal sangue ma non siano riusciti a farlo dal cervello, non riuscendo a oltrepassare la barriera emato-encefalica.

Quel che è certo è che ebola non è ancora una storia chiusa e che i sopravvissuti, soprattutto in Africa occidentale, hanno ancora un bisogno enorme di supporto e assistenza per evitare che il virus riemerga e che abbia strascichi che aggravino ancor di più il terribile bilancio dell’epidemia: oltre 11 mila morti.

Credits immagine: AJC1/Flickr

 

Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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