La misura del campo magnetico più forte dell’Universo

Quando si pensa a un astronomo, si immagina una persona che trascorre le notti curva sull’oculare di un telescopio. Il lavoro di un astrofisico contemporaneo, invece, non è diverso da quello di molti altri lavoratori, che spendono le loro giornate in ufficio di fronte al computer. Le osservazioni astronomiche, infatti, seppur effettuate di notte da un telescopio situato in luoghi remoti, oggi si analizzano al computer, comodamente seduti in un ufficio oppure a casa propria.

Questo discorso vale ancor di più per chi, come me, non osserva l’Universo visibile, ma studia il cielo attraverso le radiazioni più energetiche (ovvero ad alta frequenza, o piccola lunghezza d’onda), come i raggi X e i raggi gamma, che, fortunatamente per la nostra salute, sono assorbiti dall’atmosfera. Per questo motivo, se i nostri occhi fossero sensibili ai raggi X, alzando gli occhi al cielo non vedremmo nessuna stella, come in una notte nuvolosa. E’ questa anche la ragione per cui, se da un lato l’uomo osserva la luce delle stelle fin dall’alba dei tempi, il primo raggio X proveniente da fuori del nostro Sistema Solare è stato catturato solo poco più di 50 anni fa.

Nel 1962, infatti, un gruppo di ricerca guidato da Riccardo Giacconi (premio Nobel per la Fisica nel 2002) e Bruno Rossi, due italiani emigrati negli Stati Uniti, ha lanciato un razzo dotato di rivelatori di raggi X che per alcuni minuti è uscito dall’atmosfera e ha scoperto che l’Universo pullula di oggetti che emettono raggi X. Dal 1970, poi, si è iniziato a utilizzare i satelliti e una strumentazione sempre più raffinata, che ha portato a riconoscere varie classi di sorgenti cosmiche di raggi X: dalle stelle simili al nostro Sole ai buchi neri, la cui esistenza è stata provata proprio grazie ai raggi X, dagli enormi ammassi di galassie, che possono contenere migliaia di galassie, alle minuscole stelle di neutroni, che in una sfera di una decina di chilometri di raggio concentrano più materia di quanta ce ne sia in tutto il Sistema Solare.

I dati che riceviamo dai satelliti sono in realtà serie di numeri che, opportunamente processati, danno però origine a immagini del cielo, spettri (ovvero la distribuzione energetica dei raggi X osservati) e curve di luce (grafici che mostrano l’evoluzione temporale del segnale di raggi X). Nell’analizzare e interpretare il significato di questi dati, l’astrofisico deve avere competenze specifiche: servono studio e preparazione (soprattutto solide basi in matematica e fisica), ma anche una mente aperta e fantasia. Fare lo scienziato (o meglio, il ricercatore) significa scoprire cose nuove, che nessun altro al mondo aveva mai visto o pensato prima: non si può fare ricerca ripetendo meccanicamente cose fatte da altri. Esistono naturalmente aspetti ripetitivi anche nel nostro lavoro, ma il ricercatore deve sempre mantenere un atteggiamento critico per andare più a fondo di un argomento già noto o avere l’intuizione per aprire nuove strade nel cammino della scienza.

Un esempio concreto di come funzioni questo meccanismo della scoperta in campo astrofisico è costituito da una recente scoperta che ho vissuto in prima persona. Questa scoperta consiste nella prima misura diretta del campo magnetico sulla superficie di una magnetar, uno degli oggetti astrofisici più affascinanti e misteriosi, la cui caratteristica fondamentale, come suggerisce il nome (contrazione dell’inglese MAGNEtic sTAR), è proprio quella di avere un campo magnetico eccezionalmente elevato.

Quando una stella molto grande muore, esplodendo in una spettacolare supernova, può lasciare dietro di sé un piccolo nucleo (una decina di chilometri di raggio) molto denso (un centimetro cubo pesa come tutta la popolazione mondiale!) e in vorticosa rotazione su se stesso (fino a centinaia di giri al secondo), che chiamiamo stella di neutroni. Un’altra caratteristica delle stelle di neutroni è quella di avere un campo magnetico così intenso da non avere rivali in nessun altro luogo dell’Universo.

Poco più di vent’anni fa, gli scienziati americani Duncan e Thompson hanno ipotizzato che esistesse una classe di stelle di neutroni con un campo magnetico ancora più intenso di quello, già straordinario, delle stelle di neutroni conosciute fino ad allora e le hanno denominate, appunto, magnetar. Questa ipotesi era stata formulata per spiegare un particolare fenomeno avvenuto il 5 marzo 1979, quando da un punto della Grande Nube di Magellano (una piccola galassia molto vicina alla nostra) venne osservato il più intenso impulso di raggi X e gamma mai registrato fino ad allora. Questo impulso durò meno di un secondo e fu seguito per alcuni minuti da un’ulteriore emissione di raggi X che mostravano una regolare modulazione con un periodo di 8 secondi. In seguito, un fenomeno simile è stato osservato nel 1998 e nel 2004 in due diversi punti della nostra Galassia e, anche in questi casi, gli eventi sono stati attribuiti a delle magnetar.

Le magnetar si possono manifestare anche attraverso altre caratteristiche, meno estreme, che però le distinguono chiaramente da tutte le altre sorgenti cosmiche di raggi X. Alcune, compresi i tre oggetti responsabili degli eventi appena descritti, sono chiamate Soft Gamma-ray Repeaters (SGR), in quanto scoperte grazie all’emissione di brevi impulsi ripetuti di raggi X e gamma. Altre invece vengono chiamate Anomalous X-ray Pulsars (AXP) perché sono delle particolari pulsar X, ovvero sorgenti di raggi X la cui intensità varia regolarmente con un periodo di alcuni secondi. Questo periodo, detto di pulsazione, riflette la rotazione della stella intorno al proprio asse. Possiamo quindi dire che il giorno su una magnetar dura solo pochi secondi.

Il periodo di una magnetar aumenta progressivamente nel tempo, proprio a causa del suo intenso campo magnetico. Infatti, se si prende un magnete e lo si fa girare velocemente, viene prodotta energia, proprio come avviene nelle dinamo che alimentano i fanali delle biciclette. Questa energia non viene prodotta dal nulla, ma viene estratta a scapito dell’energia cinetica rotazionale della stella di neutroni, che quindi è costretta a rallentare. Il tasso di rallentamento sarà tanto più alto quanto più è intenso il campo magnetico e quindi questo fenomeno ci permette di stimare il campo magnetico della magnetar, semplicemente misurando quanto si allunga il suo periodo di pulsazione.

Oggi conosciamo una ventina di SGR e AXP, ma, fino a qualche mese fa, per nessuno di questi oggetti eravamo ancora riusciti a misurare direttamente l’intensità del campo, ovvero a certificare che avessero un campo magnetico molto più forte delle altre stelle di neutroni. Eppure, almeno in linea di principio, basterebbe applicare alle magnetar lo stesso metodo che fin dalla fine degli anni Settanta ci ha permesso di confermare la presenza di campi magnetici di un’intensità superiore ai 1012gauss (ovvero migliaia di miliardi di volte più intenso di quello terrestre, che orienta gli aghi delle nostre bussole) in alcune stelle di neutroni. Questi oggetti sono anche loro pulsar X, ma, mentre le magnetar producono i loro raggi X attraverso meccanismi di dissipazione del loro enorme campo magnetico, queste altre stelle di neutroni orbitano molto vicino a un’altra stella, da cui risucchiano materia che si va a schiantare sulla loro superficie, generando raggi X in quantità. Analizzando questi raggi X nel dettaglio, ci si è accorti che in alcuni casi c’era una carenza di raggi X di una certa energia (in termine tecnico: una riga di assorbimento nello spettro), come se qualcuno avesse deciso di portarsi via solo quelli, senza curarsi di tutti gli altri. I colpevoli di questo furto selettivo di raggi X sono delle particelle cariche, come elettroni e protoni, e un meccanismo fisico, detto di ciclotrone, secondo il quale queste particelle interagiscono preferibilmente con la radiazione di una determinata energia, tanto maggiore quanto più intenso è il campo magnetico nel luogo in cui avviene l’interazione. Questo fenomeno riguarda i raggi X (e non, per esempio, le onde radio o la luce visibile) se le particelle sono elettroni e il campo magnetico è circa 10 15gauss (come nelle pulsar X che si cibano della loro stella compagna), ma anche per protoni (che hanno una massa superiore a quella degli elettroni) in un campo magnetico un migliaio di volte più intenso. Siccome un campo magnetico di circa 1015 gauss è proprio quello atteso per una magnetar, se vediamo righe di ciclotrone prodotte da elettroni nelle pulsar normali, negli spettri di raggi X delle magnetar dovremmo vedere righe dovute a protoni. Ma, nonostante le grandi aspettative legate soprattutto al lancio dei grandi osservatori per raggi X Chandra della Nasa e XMM-Newton dell’Esa (lanciati entrambi nel 1999 e ancora perfettamente funzionanti), fino a qualche mese fa nessuna riga di assorbimento era mai stata osservata nello spettro di una magnetar.

Nel 2009 è però avvenuta la scoperta di un nuovo SGR, chiamato SGR 0418+5729 (SGR0418, per brevità), che si è manifestato emettendo due brevi impulsi e una prolungata emissione di raggi X, che perdura, seppur molto attenuata, ancora oggi. Come sempre accade quando si scopre una nuova magnetar, abbiamo subito iniziato una campagna di osservazioni e di analisi, facendo richiesta di puntare tutti gli strumenti disponibili verso questo oggetto e andando a scavare negli archivi (su internet, naturalmente, non in qualche magazzino polveroso) per vedere se questo angolo di cielo fosse stato già osservato in passato.

Analizzando lo spettro dei raggi X emessi da SGR0418, ci siamo accorti che sembrava esserci una mancanza di raggi X intorno a una particolare energia, soprattutto in certe fasi della rotazione della stella (il periodo di pulsazione di SGR0418 è di circa 9 secondi). Purtroppo la qualità dei dati allora a nostra disposizione non era sufficiente e l’ideale sarebbe stato avere una lunga osservazione con XMM-Newton. Purtroppo questa volta la concorrenza ci aveva anticipato: i nostri colleghi americani erano stati più veloci di noi a chiedere questa osservazione e quindi per alcuni mesi solo loro avrebbero potuto avere accesso ai dati, che solo in seguito sarebbero stati messi a disposizione di tutti. Nonostante questa parziale sconfitta, non ci siamo tirati indietro e abbiamo scritto un articolo per descrivere i risultati delle nostre osservazioni, compreso il nostro sospetto che SGR0418 potesse nascondere una riga nel suo spettro di raggi X.

Alcuni mesi più tardi, SGR0418 ci ha però riservato una sorpresa davvero notevole. Come detto in precedenza, l’enorme campo magnetico delle magnetar le costringe a rallentare il loro periodo di rotazione e, tipicamente, dopo pochi giorni il periodo di pulsazione di una magnetar si è già allungato sensibilmente. Ma per SGR0418 questo non è successo: dopo diversi mesi, il periodo di rotazione era sempre lo stesso, come se il campo magnetico di questo oggetto fosse molto meno potente del previsto. Quando ce ne siamo accorti, abbiamo scritto queste considerazioni in un articolo, pubblicato su Science, e da allora SGR0418 è nota come la magnetar con il campo magnetico basso. Solo quest’anno, dopo avere raccolto più di tre anni di dati, siamo riusciti a misurare un significativo rallentamento di SGR0418, confermando che il suo valore non è quello tipico di una magnetar, ma piuttosto quello corrispondente al campo magnetico di una stella di neutroni normale.

Ma le sorprese di SGR0418 non finiscono qui. I dati spettrali raccolti da XMM-Newton nel 2009 erano ormai diventati pubblici da tempo, quando un venerdì pomeriggio dello scorso febbraio ho pensato di analizzarli di nuovo per cercare con una nuova tecnica quella possibile riga di assorbimento che sembrava apparire solo in alcune fasi della rotazione di SGR0418. L’idea consisteva nel creare un’immagine che rappresentasse, in una mappa bidimensionale, il numero di raggi X osservati in un certo intervallo di energia e di fase di rotazione, in modo da cercare di mettere in luce un’eventuale riga di assorbimento che variasse rapidamente durante la rotazione della magnetar. Il risultato di questa analisi è stato folgorante: l’immagine che avevo prodotto mostrava una riga di assorbimento, la cui energia variava fortemente con la fase di rotazione, formando una specie di “V” scura. In quel momento avevo capito di aver trovato la prima riga di ciclotrone in una magnetar, ovvero di aver effettuato per la prima volta la misura diretta del campo magnetico di una magnetar.

Inoltre, una riga così variabile nello spettro di una stella di neutroni non si era mai vista prima e implica che l’intensità del campo magnetico cambi notevolmente sulla superficie della stella. Anche questo risultato si può interpretare nell’ambito del modello delle magnetar, che prevede una configurazione molto complicata per il campo magnetico, con zone molto più magnetizzate di altre. Lo stesso succede del resto anche sul nostro Sole, dove le macchie solari hanno un campo magnetico migliaia di volte più intenso rispetto al resto della superficie solare. Tutto ciò significa che con un’unica osservazione siamo riusciti a confermare che il campo magnetico delle magnetar ha una geometria complicata e che SGR0418 è davvero una magnetar (il suo campo magnetico medio è come quello delle stelle di neutroni normali, ma possiede una zona sulla sua superficie con un campo da magnetar) e a misurare il campo magnetico più intenso dell’Universo (milioni di miliardi di volte più intenso del campo terrestre).

A quel punto, l’eccitazione è salita alle stelle, così come la preoccupazione: mi rendevo conto di aver per le mani un’importante scoperta, ma anche che i dati erano a disposizione di chiunque da diversi anni. Come mai non se ne era accorto nessuno? Forse ero io a sbagliare e quindi, con i miei colleghi, ho iniziato una serie di controlli, che però hanno dato esito positivo. D’altro canto, era possibile che già qualcuno stesse lavorando sugli stessi dati e quindi rischiavamo la cocente delusione di vederci soffiare la scoperta sotto il naso: bisognava lavorare di fretta e anche in gran segreto, per evitare che qualcuno ci rubasse l’idea. Di conseguenza, per una settimana non sono riuscito a dormire, per l’agitazione, e i mesi successivi sono stati dedicati allo studio dettagliato di questa scoperta e alla scrittura dell’articolo che la descrive, apparso su Nature a metà agosto.

Ora la nostra scoperta è a disposizione degli scienziati di tutto il mondo, che possono controllare l’accuratezza del nostro lavoro (è così che funziona la scienza: non esistono verità assolute, ma solo tesi che rimangono valide solo finché non vengono smentite) e utilizzare i nostri risultati per formulare nuove ipotesi e far progredire la nostra conoscenza dell’universo che ci circonda. E per me rimane la soddisfazione di aver contribuito con il mio lavoro ad aggiungere un piccolo tassello all’immenso mosaico delle nostre conoscenze scientifiche.

Credits immagine: La magnetar SGR 0418+5729. In alto a destra la regione della stella che ha fatto registrate il campo magnetico più intenso dell’universo (Elaborazione grafica. Credit: ESA-ATG Medialab)

3 Commenti

  1. C’è un piccolo errore: il campo magnetico di SGR0418 non è di 1015 Gauss ma di 1.000.000.000.000.000 Gauss circa (10 elevato alla 15)

  2. A me sembra di avere una mente aperta e fantasia anche se aimè, mancano le doti principali,cioè studio e preparazione per poter entrare nell’argomento,comunque provo a dire la mia.
    Siccome sono convinto che sia l’atomo di azoto a incanalare il magnetismo con la sua attitudine ad orientarsi in una precisa direzione,in pratica riuscirebbe a sommare”l’energia magnetica”che è sempre proporzionale al totale di tutte le forme di energia presenti in quel preciso spazio,fino ad arrivare a livelli estremi.
    I comportamenti diversi delle magnetar potrebbero essere dovuti a differenti densità di azoto nello strato esterno,formatisi magari come si ricava l’uranio arricchito cioè per centrifugazione(per sentito dire),in questo caso la centrifuga è la stella stessa.
    Purtroppo,aimè,questa idea non sarà mai verificabile proprio perché i raggi X e gamma coprono tutte le frequenze inferiori.

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