L’abbraccio mortale dell’amianto

Non sono troppo lontani gli anni in cui l’amianto era un materiale utilizzato in tutto il mondo nei settori più disparati – oltre 3000 – dall’edilizia all’industria dei giocattoli. E la sua produzione arrivava a superare cinque milioni di tonnellate annue. Oggi non è più così. La produzione si è contratta e non arriva neppure a tre milioni di tonnellate, che finiscono soprattutto nei paesi in via di sviluppo dell’Asia, America Latina e Africa. Lì dove non ci si fa troppi scrupoli a usare ancora questo minerale fibroso, ufficialmente riconosciuto dal 1973 tra le 50 sostanze maggiormente cancerogene per l’uomo: l’amianto è infatti la causa scatenante di gravi forme di tumore alla pleura e cronici problemi respiratori come quelli dell’asbestosi. Ma solo nei paesi avanzati è considerato un materiale fuorilegge.

L’Italia conosce molto bene le problematiche legate all’amianto le visto che è stata una delle prime nazioni produttrici a livello europeo e la quinta a livello mondiale. Dal 1992 ne sono assolutamente vietati l’uso, la produzione e la commercializzazione. Se fino a ieri il problema era confinato soprattutto nelle fabbriche che trattavano il materiale, oggi il rischio maggiore in Italia arriva dalle emissioni diffuse delle industrie e dalle discariche dismesse.

La prima Conferenza nazionale sull’amianto – indetta nelle scorse settimane dall’Istituto superiore di sanità e dall’Enea (Ente per le nuove tecnologie l’energia e l’ambiente) – ha fatto il punto a sette anni dall’entrata in vigore della legge.

Secondo i dati dell’Inail (Istituto nazionale assicurazioni e infortuni sul lavoro) presentati durante la conferenza, nel 1994 l’asbestosi rappresentava l’1,8 per cento delle malattie professionali denunciate, con la maggiore incidenza in Piemonte, Friuli Venezia Giulia e Liguria. Nel 1996 i casi accertati di mesotelioma provocati dall’amianto arrivavano a 140 e 15 erano ogni anno i casi di cancro polmonare contratto da chi già era affetto da asbestosi. Probabilmente si tratta di dati sottostimati: secondo uno studio condotto dall’Istituto superiore di sanità (Iss) analizzando il periodo 1965-1993, alla sola Eternit di Casal Monferrato sono stati riscontrati oltre 100 casi di mesotelioma e altrettanti di cancro polmonare. E dalle 13 pensioni di invalidità per tumore da amianto riconosciute ai lavoratori qualche anno fa, si è passati alle 260 dell’anno scorso.

Oggi, per fortuna, gli unici ad essere ancora esposti al rischio amianto sul lavoro sono coloro che si occupano delle operazioni di bonifica. “Il fattore di maggior rischio resta sempre quello professionale”, dice Gianfranco Donelli, direttore della ricerca dell’Iss, “perché il danno per la salute è direttamente legato alla quantità e al tipo di fibre inalate. Ci sono però indicazioni anche su possibili danni da esposizione indiretta, per esempio le mogli dei lavoratori che lo inalano attraverso gli indumenti dei mariti”. Attualmente sono proprio le emissioni diffuse da fabbriche e miniere dismesse (fonti spesso non censite alle quali potremmo essere inconsapevolmente esposti) a essere sotto osservazione. Il problema è che purtroppo i danni dell’amianto potrebbero vedersi ancora per molto tempo. “I tempi di latenza per il manifestarsi delle malattie possono arrivare a 20-40 anni”, conclude Donelli.

Ecco perché, anche dopo il varo della legge che mette al bando l’amianto, resta ancora molto da fare prima di arrivare a una bonifica definitiva. Le norme italiane prevedevano l’avvio immediato di piani di censimento dei siti a rischio da parte delle regioni e la preparazione di specifici piani di bonifica per una graduale rimozione dell’amianto. Parallelamente si dovevano istituire corsi di formazione per gli addetti alle operazioni di smaltimento. Eppure a sette anni dal varo della legge, ancora ci sono regioni in forte ritardo: Abruzzo, Molise, Puglia, Val d’Aosta, Lazio, Piemonte e Sicilia non hanno ancora presentato i piani di smaltimento. Altro punto dolente è quello degli esigui finanziamenti: appena otto miliardi annui per gli anni ‘92, ‘93 e ‘94. E di questi, ben 16 miliardi non stati nemmeno spesi.

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