Categorie: SaluteSocietà

Le nuove tecnologie che curano la medicina

Davide Zaccagnini
Moving boxes
L’asino d’oro, 2015
Pp 160, Euro 12.00

È difficile non prendere parte alle speranze, alle delusioni, ai tentativi di innovazione del protagonista di questo libro, un giovane chirurgo che riflette in modo problematico sulla sua stessa professione. Dovendo per la prima volta operare un paziente, il chirurgo racconta il conflitto sistematico tra quello che sa di dover fare e il significato dei gesti che compie quasi automaticamente: le routines diventano sicurezze che nascondono le incertezze, le prassi apprese fin dai primi anni di studio appaiono come garanzia della comprensione di incomprensibili sistemi complessi. La riflessione sulle responsabilità del medico e sul modo di affrontarle si estende, quasi insensibilmente, al significato stesso della malattia.

Per le sindromi moderne, come il cancro, l’ipertensione, le malattie cronico-degenerative che colpiscono un sistema biologico non esistono ancora delle vere spiegazioni causali, e questo impedisce teoricamente anche la possibilità di prevederle. Non vi sono infatti “metodi certi” adatti alla comprensione di sistemi multivariabili, dove la descrizione di singole parti non permette di dedurre il funzionamento dell’intero sistema, le modalità di interazione sono sempre piene di eccezioni e non esistono linguaggi come la matematica capaci di definirli. La prassi clinica sa bene che solo probabilità e statistica possono avere accesso, con ampi margini di errore, alla dinamica e alla evoluzione di sistemi complessi.

Data la mancanza di regole certe, riflette il protagonista, chi si occupa di malattia è impegnato da più di cinquemila anni a catalogare, descrivere, documentare lo stato di salute dei pazienti, e le mille presentazioni di ogni stato patologico. I pazienti reali non sono mai identici ai casi pubblicati, le generalizzazioni sono ambigue, il lavoro clinico resta incerto e variabile.

L’impotenza del medico di fronte all’ambiguità dei casi che deve trattare non dipende quindi dalla mancanza di informazione, ma dalla qualità di quella disponibile, ricchissima per quanto riguarda le fenomenologie ma incapace di determinarne le cause prime. L’onestà di queste riflessioni ha come controparte la fiducia coatta che un malato deve avere o dimostrare nei confronti del suo medico anche quando il medico stesso, come in questo racconto, non sa e non capisce cosa stia succedendo al suo paziente.

Le moderne tecnologie, i sistemi esperti, possono migliorare la qualità delle informazioni disponibili su sindromi cliniche complesse? Esistono attualmente regole che permettano di generalizzare le conoscenze su casi particolari? Fin dal 1999, negli Stati Uniti, sono stati sviluppati studi tendenti alla costruzione di un sistema sanitario più sicuro, e sono stati analizzati con vari criteri i meccanismi responsabili dei diversi tipi di errori clinici. Ottantamila diagnosi sbagliate all’anno, negli Usa, danno certamente da pensare: ma le cause non sono state individuate nell’ignoranza dei medici, quanto nelle condizioni intrinseche al sistema e, ancora una volta, nella complessità del sistema stesso.

La speranza di poter razionalizzare le conoscenze esistenti su diverse sindromi porta il protagonista a sviluppare, prima in Italia e poi oltreoceano, un sistema informatico avanzato capace di dare accesso immediato a tutti i dati disponibili su ogni argomento. Le rappresentazioni sono sempre altro dalla realtà, ma le nuove tecnologie lasciano molto spazio alla speranza di riuscire a costruire sistemi strutturati che sappiano mettere in relazione una molteplicità di fatti e tradurli in simboli di cui tutti possono interpretare il significato. La presentazione organizzata di questa grandissima massa di conoscenze dovrebbe togliere ai medici la sempre presente paura di sbagliare e guidarli invece con sicurezza e affidabilità nel formulare diagnosi e stabilire terapie corrette.

Tuttavia gli strumenti informatici, che pure collegano con relazioni logicamente inoppugnabili le accurate e schematizzate descrizioni dei fatti clinici, non riescono ad avere la meglio sulla complessità del sistema biologico, e il ragionamento clinico umano, soggetto a continui aggiustamenti interpretativi, si dimostra tuttora migliore delle prestazioni della “macchina”. Al contrario di questa, gli operatori umani riescono a gestire informazioni ambigue e incomplete ricavando indizi significativi dalla percezione soggettiva, dalle strutture di contesto, da esperienze approssimativamente simili; da queste ambiguità fanno emergere un significato di compromesso, una prassi efficace che guida le loro specifiche modalità di intervento. Dal suo universo filosofico anche Wittgenstein ha qualcosa da dire sull’impostazione del progetto informatico: non esiste (e non può esistere) una rappresentazione simbolica esaustiva del mondo, e tentare di fissarne il significato in simboli confonde il significato stesso.

Accanto alla storia del progetto, alle tensioni professionali del protagonista e a rapidi sguardi sulla sua vita personale vi sono momenti di onesta e dolorosa riflessione sulla paura e le insicurezze del mestiere, sulla sofferenza della morte e, soprattutto, sulla impreparazione ad affrontarla che accomuna medicipazienti e familiari. Quasi di sfuggita appaiono dati che rilevano differenze nella sopravvivenza tra pazienti informati e non informati sulla gravità del loro male, sul sostegno offerto dalle cure palliative, sui benefici offerti da momenti di comunicazione consapevole e attenta tra medico e paziente o tra familiari e paziente. Lo stabilirsi di rinnovate relazioni umane che superano le difficoltà individuali permette di immaginare delle modalità possibili per accompagnare le persone malate nei momenti più difficili della loro vita.

Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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