Le promesse mancate dell’Earth Summit

Tra circa un mese sarà l’anniversario della Conferenza su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro. Cinque anni da quell’Earth Summit dove “grandi” e “piccoli” si radunarono al capezzale di un vecchio e stanco pianeta, alimentando molte speranze e facendo altrettante promesse. Vennero siglate due convenzioni, sui cambiamenti climatici e sulla biodiversità (alle quali seguì, due anni dopo, quella sulla desertificazione), e fu messo a punto uno strumento per stabilire obiettivi e strategie verso uno sviluppo sostenibile, l’Agenda XXI. Ma a quattro anni dall’alba del XXI secolo, ideale punto di svolta, il cosiddetto “spirito di Rio” è estinto e il bilancio appare in rosso. La responsabilità principale è dei paesi industrializzati.

A questo proposito Galileo ha intervistato Bruce Rich, responsabile dell’ufficio internazionale dell’Environmental Defense Fund, una delle maggiori organizzazioni ambientaliste americane. Autore di “Mortgaging the Earth”, un approfondito studio sulle conseguenze sociali e ambientali del politiche di prestito allo sviluppo, Rich è a Roma per incontrare parlamentari e membri del governo italiano.

A cinque anni dall’Earth Summit, che bilancio si può fare delle politiche ambientali dei diversi paesi?

“Il bilancio è deludente. I paesi sviluppati non hanno dato seguito agli impegni assunti. Niente di concreto è stato fatto riguardo alla Convenzione sul clima – il più importante degli accordi raggiunti a Rio – che li impegnava entro il 2000 a stabilizzare al livello del 1990 le emissioni di gas serra. Ora siamo a tre anni dal 2000 e siamo ancora molto lontani dal traguardo. E il disimpegno da parte dei paesi più ricchi mette in pericolo qualsiasi possibilità di accordo e compromesso con quelli in via di sviluppo”.

Il disimpegno dei paesi ricchi è il disimpegno degli Stati Uniti. Non pensa che i risultati in campo ambientale della presidenza Clinton-Gore siano stati al di sotto delle aspettative?

“Sì, probabilmente gli Stati Uniti avrebbero dovuto prendere in mano la situazione, e non l’hanno fatto. E penso che Al Gore sia stato una delusione per gli ambientalisti americani. Non ha avuto alcuna influenza. Ma è anche vero che si tratta di un vicepresidente, e questo è un ruolo tradizionalmente molto debole. Il suo lavoro è quello di migliorare l’immagine del presidente Clinton, il cui impegno ambientale non è forte. Migliore di quello dei repubblicani, certamente, ma non è molto. Anzi, per certi aspetti l’amministrazione Bush si è rivelata più attenta”.

Di quali aspetti parla?

“Per esempio, il direttore americano presso la Banca mondiale durante l’Amministrazione repubblicana era molto aggressivo nel controllo della qualità e aveva una visione più rigorosa dell’ambiente rispetto alla direzione attuale, gestita da un’amica di Hillary Clinton che si “bea” di aver raggiunto il ruolo più importante della sua vita. Ma in definitiva penso che la causa principale degli scarsi risultati sia nel mancato sostegno del Congresso al Presidente. Poco dopo l’elezione di Clinton ci fu il tentativo di introdurre una tassa sull’uso dei combustibili fossili. Sarebbe stato un piccolo passo in avanti per ridurre le emissioni di gas serra e facilitare una scelta energetica alternativa, in sintonia con la Convenzione sul clima di Rio. Certo, una tassa modesta, più che altro simbolica, però fu respinta dal Congresso in seguito alle pressioni della lobby del petrolio”.

Crede che durante questo secondo mandato i risultati possano migliorare?

“Finché c’è vita c’è speranza, ma non ne sono molto convinto”.

Pensa che Gore tornerà a enfatizzare gli aspetti ambientali del suo programma nel 2000, quando, presumibilmente, si candiderà alla Presidenza degli Stati Uniti?

“Personalmente, non ho alcun dubbio sul suo impegno. Il problema è: quanta credibilità avrà nel 2000?”.

Il 1997 è pieno di appuntamenti: la celebrazione dell’Earth Summit all’Onu, preceduta dall’incontro dei G7 a Denver dove i paesi industrializzati dovrebbero decidere una politica ambientale comune. Poi le Conferenze sulla desertificazione a Roma e sul clima a Kyoto. Si aspetta novità positive?

“Non molto. Basta vedere cosa è stato fatto finora. Gli incontri della Commissione per lo sviluppo sostenibile, lo strumento che doveva dar seguito agli impegni presi a Rio, sono stati deprimenti. Le nazioni del G77, cioè il Sud del mondo, chiedono: perché ci dobbiamo preoccupare delle nostre emissioni se i paesi industrializzati non rispettano gli accordi? Rio mostra con evidenza i limiti dell’attuale governo mondiale. Che sono i limiti anche di istituzioni finanziarie strategiche come la Banca mondiale, che ipotecano lo sviluppo dei paesi poveri attraverso lo strumento del prestito”.

Lei sta incontrando alcuni politici italiani. Quale può essere il ruolo degli europei nei negoziati ambientali?

“Il ruolo dell’Europa è fondamentale. Ma mentre la Germania è stata spesso attiva nel sottolineare i ritardi delle istituzioni internazionali, in Italia per molto tempo il governo e i parlamentari hanno dormito in piedi. Ora si stanno svegliando, c’è un interesse crescente, una società civile forte, molte Ong che fanno pressione. È importante alla vigilia del G7 di Denver, dove i governi dovrebbero discutere alcuni criteri socio-ambientali minimi per le agenzie di credito all’esportazione. Infatti, c’è una corsa al “ribasso” nella competizione tra le diverse banche a finanziare grossi progetti di sviluppo. Un esempio clamoroso è quello della Diga delle “Tre gole”, in Cina, un progetto con un alto impatto ambientale, che causerà il reinsediamento di centinaia di migliaia di persone, alla quale l’Import-Export Bank americana ha negato i finanziamenti e sulla quale si sono subito gettati tedeschi, svizzeri e giapponesi. Poi, è chiaro, all’Onu si faranno le celebrazioni e speriamo che a Kyoto, in dicembre, venga finalmente siglato un protocollo con degli impegni concreti per ridurre le emissioni di anidride carbonica”.

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