L’Italia resta indietro

Sette anni di negoziati, tra adesioni entusiastiche e scetticismi, ridimensionamenti e compromessi, ma il protocollo di Kyoto ora è realtà. Alla mezzanotte del 16 febbraio, ora di New York, è finalmente entrato in vigore il trattato, sottoscritto da 140 paesi, che punta a ridurre entro il 2012 le emissioni di gas serra del 5 per cento rispetto ai livelli del 1990. Una goccia nel mare del problema del riscaldamento globale, inutile negarlo. Ma un primo passo importante, e un segnale di volontà politica globale che sarebbe un errore sottovalutare. Le discussioni sul protocollo, che è in realtà un allegato al trattato delle Nazioni Unite del 1992 sul cambiamento climatico, sono iniziate nel 1997 nell’omonima città giapponese. Ma l’entrata in vigore non era impossibile fino a quando i paesi firmatari non avessero rappresentato almeno il 51 per cento delle emissioni in tutto il pianeta, obiettivo raggiunto solo dopo la firma della Russia avvenuta l’anno scorso. E ora, quindi, che succede? In teoria succede che i Paesi firmatari mettono in pratica i loro piani energetici per ridurre le emissioni di ossido di carbonio e altri gas ritenuti responsabili del cambiamento climatico. Le riduzioni richieste dal protocollo per raggiungere il suo obbiettivo complessivo variano da paese a paese, in ragione dei livelli di partenza e delle necessità di crescita economica. Canada, Ungheria, Giappone e Polonia devono per esempio ridurre del 6 per cento, la Croazia del 5, mentre Francia e Finlandia sono autorizzate a mantenere i livelli del ‘90. Altri paesi sono invece autorizzati ad aumentare le proprie emissioni entro precisi limiti: l’1 per cento per Nuova Zelanda, Russia, Ucraina e Norvegia, e 10 per cento per l’Islanda, solo per fare alcuni esempi. I 25 paesi Unione Europea, che nel complesso devono scendere dell’8 per cento, hanno adottato un sistema di ridistribuzione interna delle quote che consente ulteriori aggiustamenti. Se questa è la teoria, in pratica ci sono casi di paesi rimasti indietro, a cominciare dall’Italia. Che, insieme a Repubblica Ceca, Grecia e Polonia si è vista bocciare in dicembre dalla Commissione Europea il Piano Nazionale delle Emissioni, giudicato troppo generoso con le emissioni industriali, e deve quindi presentarne un altro entro l’inizio di marzo. Fonti del Ministero dell’Ambiente dicono che il piano verrà presentato martedì 22 febbraio, e spiegano il ritardo anche con il fatto che il Parlamento italiano ha recepito la relativa direttiva europea solo alla fine dello scorso anno. E solo da allora il Governo ha avuto titolo per chiedere alle aziende coinvolte le informazioni riguardanti i rispettivi livelli di emissioni, informazione senza la quale era impossibile stilare un Piano Nazionale delle emissioni. Eppure l’Italia non è davvero nelle condizioni di perdere tempo, perché le toccherà ridurre le sue emissioni del 6,5 per cento, ma tra il 1990 e il 2002 le ha in realtà aumentate dell’8,8 per cento. Non che siano in molti a trovarsi a buon punto. La prima della classe è la Gran Bretagna, che dichiara già una riduzione del 14,5 per cento a fronte del suo obiettivo per il 2010 che sarebbe il 12,5 per cento. Un risultato ottenuto, fa notare malignamente un editoriale del quotidiano “The Guardian”, in buona parte grazie all’impopolare decisione di Margaret Thatcher di chiudere le miniere di carbone, fonte di pestilenziali emissioni. Già vicina all’obiettivo è anche la Germania, che alla fine del 2002 aveva ridotto del 18,5 per cento e deve arrivare al 21. Indietro troviamo invece paesi come il Giappone che dovrebbe scendere del 6 per cento ed è invece salito del 12. Ma non avere ancora un piano energetico dal punto di vista economico è due volte rischioso. Non solo espone l’Italia al rischio delle salate sanzioni che attendono chi non rispetterà gli obiettivi del protocollo, ma potrebbe tagliare fuori per un periodo il nostro paese dal ricco mercato delle emissioni che si è di fatto già avviato. Basti pensare che è già attiva ad Amsterdam una borsa internazionale di futures, prodotti finanziari derivati, sui diritti a emettere gas serra nell’atmosfera. Le singole imprese potranno infatti scambiare tra di loro i diritti a emettere gas serra, oppure venderle a mediatori (banche o intermediari di borsa), che a quel punto le tratteranno come qualunque prodotto finanziario. Così, almeno questa è la speranza, si creeranno incentivi economici all’innovazione e all’adozione di tecnologie pulite: le aziende che sceglieranno di investire in questo senso avranno in dote quote di emissioni da vendere a caro prezzo sul mercato. Un business che secondo gli osservatori varrà decine di miliardi di euro l’anno solo in Europa, e da cui le imprese italiane rischiano almeno per un po’ di restare fuori.

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