Lo Shuttle atterra a Trieste

“Ma è pieno di stelle!”. Così esclama l’astronauta Dave Bowman, il comandante dell’astronave Discovery, quella di “2001, Odissea nello spazio”, quando entra nel misterioso monolito nero in orbita attorno a Giove. “Ci sono così tante stelle…”, dice invece l’astronauta Curtis Brown, comandante dello shuttle Discovery, quello vero, quando dal pubblico di scienziati del Centro internazionale di fisica teorica di Trieste gli viene chiesto cosa si provi a volare lassù. “E le puoi vedere ad occhio nudo, a milioni, ammassate in nubi”, prosegue il comandante Brown. “Lo spettacolo del cielo, al di sopra dell’atmosfera terrestre, pone per forza quegli eterni interrogativi sull’universo, sulla sua origine, la sua estensione, la sua fine e oltre, al confine tra scienza e religione, sul suo scopo e su noi stessi, l’umanità”.

Non elabora ulteriormente il suo pensiero il comandante Brown. Non perché non lo possa fare, ma perché, da buon militare (è stato per anni pilota dell’aviazione degli Stati Uniti), fa il comandante anche lì, dalla cattedra dell’Aula Magna di Trieste, giovedì 30 ottobre: ascolta le domande del pubblico, un centinaio tra scienziati e ricercatori del Centro, e le dirotta sui vari membri dell’equipaggio.

Quasi tutti in forza alla Nasa (solo uno proviene dall’Agenzia spaziale canadese), gli astronauti hanno un trascorso da pilota militare, sono provvisti di master o di PhD, soprattutto in ingegneria. Inviati in orbita nell’agosto scorso per una missione di dodici giorni, la Sts-85, hanno condotto diversi esperimenti: dalla crescita in coltura, in assenza di gravità, di cellule tumorali e di cristalli proteici, alle riuscite prove tecniche di un braccio robotico di fabbricazione giapponese che, capace di movimenti raffinatissimi, sarà fondamentale al momento dell’assemblaggio dell’ormai prossimo laboratorio spaziale internazionale; fino alla messa in orbita e successivo recupero del satellite tedesco Crista-Spas, dotato di telescopi e spettrometri per la raccolta di dati sull’atmosfera, e alla messa in orbita del telescopio UV-Star, realizzato proprio a Trieste in collaborazione tra la locale Università e quella di Tucson, Arizona. Lo scopo di UV-Star, già alla seconda delle cinque missioni programmate, è lo studio dello spettro elettromagnetico nell’ultravioletto estremo, poco visibile da Terra, per l’azione di filtro dell’atmosfera terrestre.

Un programma di missione fitto e impegnativo, dunque, come sottolineano tutti gli astronauti. Ma dai loro discorsi traspare evidente la preoccupazione, tutta moderna e ormai non solo americana, di dimostare che i soldi del contribuente sono stati ben spesi. Che insomma si va nello spazio non solo e non tanto a studiare le stelle, ma anche per testare nuove armi nella lotta contro il cancro. Uno sforzo di pubbliche relazioni, quindi, in cui rientra anche la visita a Trieste: è prassi della Nasa, infatti, far visitare agli equipaggi degli Shuttle le città e i centri di ricerca che hanno contribuito agli esperimenti scientifici delle loro rispettive missioni.

Ma dal pubblico, anche se composto di scienziati e ricercatori internazionali, stentano ad arrivare le domande tecniche. A pochi interessano i dettagli di quegli esperimenti: non è certo quella la sede adatta per discutrene. Gli astronauti affascinano perché sono, prima di tutto, eroi moderni. “Siete pronti, tecnicamente e psicologicamente, ad andare su Marte?” chiede un fisico indiano. Il comandante Brown replica: “Come astronauti saremmo pronti ad andare anche domani. Ma lo è il mondo, soprattutto dal punto di vista finanziario? Tecnicamente, poi, ci sono ancora molti ostacoli da superare”. Una giovane ricercatrice domanda espressamente alla donna astronauta: “Qual è la molla che l’ha spinta a diventare astronauta?”. Risponde Jan Davis: “Quando entrai alla Nasa, nel 1979, ero affascinata dalla ricerca spaziale. Ma allora negli Stati Uniti l’attività astronautica era ai minimi storici. Che un giorno avessi potuto volare, non ci avrei proprio scommesso”.

Dal pubblico un’altra domanda: “È migliorata la sicurezza dopo il disastro del Challenger?” Risponde Kent Rominger, pilota: “Ovviamente sì, soprattutto nei controlli computerizzati nella fase di lancio, quella più delicata. Ma anche all’interno dello Shuttle, ora indossiamo una tuta pressurizzata e un paracadute. Nel caso del Challenger non avrebbe fatto alcuna differenza, ma in caso di incidenti minori durante il lancio o l’atterraggio potrebbe rivelarsi vitale la capacità di eiettarsi. Esistono inoltre procedure per atterraggi di emergenza: oltre alle due piste statunitensi normalmente usate, al Kennedy Space Center in Florida e nel deserto di Mojave in California, ci sono piste di emergenza in Spagna, in Nord Africa e sull’Isola di Pasqua. In casi estremi potremmo atterrare anche in alcuni selezionati aereoporti internazionali. Ma non si tratterebbe di atterraggi semplici. Gli Shuttle sono poco manovrabili e atterrano come un aliante: non è consentito sbagliare la manovra di avvicinamento alla pista, non si può risalire e provare un’altra volta. Detto per inciso, gli Shuttle hanno una tecnologia di comandi un po’ obsoleta. Pilotare gli F16 è tutt’altra cosa”.

“C’è sempre un margine ineliminabile di rischio”, aggiunge il comandante Brown. “Specialmente in fase di lancio, il “blast off” è un evento esplosivo estremamente violento. Ecco, è proprio questo termine e questa tecnica che mi piacerebbe eliminare. Sono sicuro che in qualche università o centro di ricerca si nasconde qualche giovane e geniale dottorando che magari ha l’idea giusta sul come farci decollare come qualsiasi aeroplano. In ogni conferenza che tengo, lo invito a farsi avanti”.

C’è ancora tempo per un’ultima domanda: “Ma non soffrite di claustrofobia?” Il comandante dirotta la risposta su una delle matricole, lo specialista di missione Stephen Robinson: “Veniamo sottoposti a test medico-fisici molto severi. Per individuare i claustrofobici ci portano in una stanza insonorizzata, ci chiudono in un sacco da testa a piedi e annunciano: “Torniamo fra un po’”. Generalmente tornano dopo un quarto d’ora, ma vi assicuro che per i claustrofobici è impossibile superare questa prova”.

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