Miss sei miliardi

Il 12 ottobre 1999 nascerà l’abitante terrestre numero sei miliardi: probabilmente sarà una bambina, e verrà alla luce in un villaggio dell’Africa sub-sahariana o in un quartiere povero del Medioriente. In soli dodici anni, la popolazione mondiale è aumentata di un miliardo. Una crescita notevole, che però non sfiora neppure le cifre pronosticate anni fa: non siamo arrivati ai dieci miliardi paventati dai teorici del boom demografico, ma neppure siamo a rischio di estinzione, come alcuni avevano ipotizzato considerando la tendenza a fare pochi figli che ha caratterizzato molte società occidentali negli ultimi decenni. Ma proprio questo “sboom” è alla base di un fenomeno già in atto e che secondo i demografi è destinato a dare una nuova fisionomia alla popolazione del pianeta: gli abitanti dei paesi ricchi del mondo saranno sempre di meno in rapporto alle popolazioni del Sud del mondo.

A cinque anni dalla Conferenza internazionale del Cairo su Popolazione e sviluppo, l’Unfpa (il Fondo delle Nazioni unite per la popolazione) ha presentato in questi giorni nelle capitali di vari paesi, tra cui Roma, il Rapporto sullo stato della popolazione nel mondo. Sulla bilancia numeri, statistiche, percentuali, ipotesi sulle tendenze future, bilanci delle politiche per la pianificazione familiare adottate negli ultimi anni a livello internazionale. E soprattutto, come dice il titolo del rapporto, dati su cui riflettere. Perché è “l’ora delle scelte”.

“Il traguardo dei sei miliardi ha aspetti sia negativi che positivi”, si legge nel documento, curato nella versione italiana dall’Aidos (Associazione italiana donne per lo sviluppo – http://www.unimondo.org/soci/ong/AIDOS.html). Senza dubbio, infatti, la frenata nell’incremento demografico è il risultato di una capacità più diffusa di distanziare e pianificare le gravidanze, segno che anche nei paesi più poveri si comincia a vedere la vita più come un investimento che come una lotteria. E si tratta di un risultato tanto più notevole se si considera che parte della popolazione mondiale oggi è rappresentata da anziani meglio curati, da adolescenti le cui madri hanno avuto accesso a centri sanitari più efficienti, e di persone che hanno avuto ricevuto un’alimentazione, un’assistenza sanitaria e un’istruzione migliori. Ma sebbene i terrestri aumentino più lentamente, non sarebbe saggio abbassare la guardia. La popolazione continua e continuerà a crescere, e sono i paesi più poveri ad avere i più alti tassi di incremento demografico. Ciò significa che la maggior parte dei nuovi nati nei prossimi decenni si troverà a vivere in città sovraffollate, nelle regioni più povere del pianeta.

I numeri indicati nel rapporto danno la misura di questa crescita differenziata. Appena nel 1960, la popolazione mondiale che viveva nei paesi meno sviluppati, 2,1 miliardi di persone, rappresentava il 70% della popolazione totale del pianeta, mentre oggi queste regioni hanno raggiunto i 4,8 miliardi di abitanti, cioè l’80%. E questa percentuale è destinata ad aumentare se, come dicono le stime, da qui al 2025 il 98% dell’incremento della popolazione mondiale si avrà proprio nei paesi più poveri. Con conseguenze che si rifletteranno sulla distribuzione delle ricchezze, sull’occupazione, e sull’emigrazione. E che imporranno scelte politiche radicali.

Uno degli aspetti che emerge dal rapporto, infatti, è che la distribuzione “etnica” della popolazione mondiale sta cambiando radicalmente. Oggi gli africani sono quasi tre volte più numerosi di quanto fossero quarant’anni fa, e dal 1960 l’Asia ha quasi raddoppiato il numero dei suoi abitanti, contro un aumento del 50% nel Nordamerica e del 20% in Europa. E da qui ai prossimi cinquant’anni, la proporzione tra popolazione occidentale e resto del mondo è destinata a cambiare ulteriormente (FIGURA 5): nel 2050 gli africani potrebbero essere il triplo degli abitanti del vecchio continente, mentre nel 1960 erano meno della metà degli europei. “Uno schiaffo alla visione etnocentrica, un incentivo a pensare in direzione multirazziale”, ha sottolineato la ministra per la Solidarietà Sociale Livia Turco nel corso della presentazione del rapporto a Roma. E una realtà che impone a tutte le nazioni di “creare le condizioni per adottare politiche e strategie per uno sviluppo equo”, si legge nel documento dell’Unfpa.

Ma c’è anche un altro elemento nuovo, che può rappresentare un vantaggio e un rischio allo stesso tempo. Oggi, come effetto dell’alto tasso di fecondità del recente passato, metà della popolazione mondiale ha meno di 25 anni, e per un terzo ha un’età compresa fra i 15 e i 24 anni. Questi giovani saranno i genitori della prossima generazione e, secondo i demografi, porteranno la popolazione mondiale ad aumentare ancora per diversi decenni. Anche se le loro famiglie saranno meno numerose di quelle dei loro genitori. E proprio qui sta un possibile asso nella manica dell’economia di domani. Se il tasso di fecondità continuerà a diminuire e se si riusciranno a creare sufficienti posti di lavoro, nei prossimi 10-20 anni si creerà proprio nelle regioni meno sviluppate un “bonus demografico”: meno bambini da nutrire, più risorse da destinare allo sviluppo. L’aumento dei giovani che entrano nel mondo del lavoro potrebbe portare a una maggiore produttività e a un’accelerazione economica “generando risorse che potranno essere impiegate per l’assistenza sanitaria, l’istruzione e la sicurezza sociale”. Un cambiamento che, secondo gli esperti delle Nazioni Unite, potrebbe portare benefici sia alle regioni più sviluppate che a quelle meno sviluppate.

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