Niente tasse sulla ricerca

Quanto è lontana Lisbona: l’obiettivo previsto nel vertice tenuto nella capitale portoghese nel marzo del 2000, sul finanziamento alla ricerca – il 3 per cento del Pil – in Italia resta un miraggio. Per i diversi schieramenti politici, il dito è puntato contro il tessuto industriale, composto storicamente da piccole e medie imprese non all’altezza della sfida tecnologica europea. Svecchiare il parco-manager, puntare sull’innovazione e la competizione, e defiscalizzare gli utili reinvestiti nella ricerca, sono le ancore di salvezza per uscire dall’impasse.

Giuseppe Valditara – Pdl, Ordinario di istituzioni di diritto romano, capogruppo di Alleanza nazionale nella commissione I Senato Affari costituzionali; membro della commissione VII Senato istruzione, Beni culturali, Sport.

Qual è la vostra ricetta in termini di finanziamenti alla ricerca?
“Purtroppo il tre per cento del Pil previsto dagli obiettivi di Lisbona al momento è allo stato oggettivamente irrealistico e l’Italia, da questo punto di vista, sconta un handicap molto grave. Se sul fronte della ricerca pubblica siamo quasi nella media Ocse, il gap spaventoso è, invece, sul fronte di quella privata, dove siamo invece al penultimo posto. Questo significa che è necessario introdurre, per esempio, interventi di forte defiscalizzazione degli utili reinvestiti in ricerca. Più in generale, insomma, “niente tasse sulla ricerca”.

Quale può essere una ulteriore misura concreta per favorire investimenti in ricerca da parte delle imprese?
“Per esempio lo Stato potrebbe prestare delle fideiussioni a garanzia di finanziamenti concessi dalle banche, a tassi agevolati, a imprese che investono in ricerca. E’ senz’altro meglio della vecchia prassi di fondi erogati a pioggia e non legati al raggiungimento dei risultati. Si potrebbero anche finanziare borse di dottorato presso le imprese”.

Ma, in generale, come è possibile rendere più efficace il sistema della ricerca?
“Premiando le università e gli enti più virtuosi che ottengono risultati migliori. E promuovendo, ancora, un grande piano di recupero di tutti quegli atenei dissestati: un piano pluriennale di rientro concordato per poterli riequilibrare finanziariamente e sottrarli al rischio di fallimento”.

Andrea Ranieri – Pd, Laureato in filosofia, eletto nella XV Legislatura al Senato per i Democratici di Sinistra, membro della VII Commissione Istruzione, Beni culturali, Sport.

Quale finanziamento lo Stato dovrebbe garantire alla ricerca (in termini di percentuale sul Pil)?
“Quello di Lisbona resta un obiettivo al quale bisogna avvicinarsi in maniera progressiva. La strategia che prevediamo, pertanto, è basata su un sostanziale incremento dei trasferimenti pubblici alla ricerca e, contestualmente, su un nuovo mix dove almeno il 30 per cento dei finanziamenti agli enti di ricerca possa essere assegnato tramite la valutazione”.

Che rapporto deve esserci tra ricerca di base e quella finalizzata o applicata?
“Credo che sia opportuno finirla con la dicotomia secca tra ricerca di base e ricerca applicata: per il Pd esiste solo la buona e la cattiva ricerca. Basta con distinzioni così rigide e che, tra l’altro, non hanno troppo senso in un contesto sfumato come quello di oggi, dove i successi della scienza spesso diventano applicazioni immediate. E non si può nemmeno ergere il mercato come esclusivo parametro valutatore. Lo ripeto: esiste solo la buona e la cattiva ricerca”.

In questo senso, quale ruolo deve giocare l’industria?
“L’industria deve intervenire in maniera molto più massiccia. Nella legge Bersani è stata promossa una misura legislativa forse all’avanguardia in Europa con le più alte detrazioni fiscali a favore dei progetti comuni tra università e imprese. Certo, resta da vedere adesso quanto sarà applicata e senza dubbio limitarci a questo solo intervento non è decisivo. Rispetto a questo obiettivo pesano alcuni fattori peculiari del nostro paese: l’essere molto forti in settori industriali che non richiedono particolare ricerca e deboli là dove, invece, la ricerca serve. E in questo contesto pesa anche la dimensione stessa delle imprese, per la maggior parte piccole e media. Tutto questo ci fa capire che è giusto, da una parte, predisporre degli strumenti pubblici ma che, dall’altra, non si può tralasciare un ruolo forte della ricerca di base. C’è bisogno anche di un intervento pubblico massiccio, di trasferimenti più sostanziosi ma, allo stesso tempo, sempre più valutati”.

Vito Francesco Polcaro – la Sinistra l’Arcobaleno, Senior scientist dell’Istituto Nazionale di AstroFisica del Cnr di Roma e membro del Comitato scienziati e scienziate contro la guerra.

Quale dovrebbe essere il finanziamento che lo Stato dovrebbe garantire alla ricerca in termini di percentuale sul Pil?
“L’obiettivo del tre per cento di Lisbona, in totale fra pubblico e privato, è sicuramente irrealizzabile, ma con l’attuale 1,1 per cento non si fa nulla. E’ necessario almeno arrivare a un raddoppio nel giro della prossima legislatura. Il Pil, poi, è uno strano indicatore, del quale la Sinistra l’Arcobaleno non è entusiasta. Se, infatti, questo si riduce per colpa della recessione, non è comunque un buon motivo per tagliare ulteriormente i fondi alla ricerca. Anzi, in una fase di crisi semmai è giusto dirottare le risorse da settori improduttivi o dannosi ad altri che hanno nuove e forti potenzialità”.

Per esempio?
“Noi storicamente non siamo favorevoli alla partecipazione italiana alle missioni militari all’estero, che quasi sempre sono solo nominalmente “missioni di pace”. Se l’Italia si ritirasse da alcune di queste missioni (penso ad esempio all’Afghanistan) non solo farebbe una cosa politicamente giusta ma eviterebbe anche il dispendio di cifre enormi, assolutamente non paragonabili rispetto a quando si spende per la ricerca. Da questo punto di vista una limitazione, anche minima, sugli stanziamenti militari darebbe spazi di enorme potenziamento alla scienza. Una sola bomba da 250 chili, non intelligente, costa intorno ai 50mila euro: di fatto lo stipendio di un anno di un ricercatore”.

In che misura l’industria dovrebbe pesare sul finanziamento alla ricerca? Pensate a qualche sgravio fiscale in questo senso?
“Il problema non è quello di aumentare i finanziamenti alla ricerca industriale, indipendentemente dal meccanismo di finanziamento, ma quello di darli ai soggetti giusti. Nella legislatura 2001-2006, per esempio, si sono presi soldi a iosa e li si è gettati in una scatola vuota come l’Istituto Italiano di Tecnologia, che si è rivelato di ben poco aiuto all’innovazione del sistema produttivo nazionale. Ma bisogna anche stare molto attenti ai finanziamenti diretti alle industrie. L’impresa italiana non è storicamente interessata alla ricerca e non spende, in tal senso, un euro se non l’ha ricevuto prima dallo Stato, lasciando poi spesso inutilizzato il sapere acquisito con fondi e personale pubblici (si pensi ad esempio al brevetto del motore diesel “common rail”, ottenuto dalla Fiat con un Progetto Finalizzato del Cnr e poi venduto a un’impresa straniera). Per questo aumentare ulteriormente i fondi senza avere prima la garanzia di un reale interesse dell’impresa nei confronti di questo tipo di attività rappresenta uno spreco”.

Cosa propone, in merito, la Sinistra l’Arcobaleno?
“Cominciare, magari, a sviluppare una nuova imprenditoria. E’ un dato reale che il 75 per cento degli imprenditori italiani non ha il titolo di licenza media superiore e che solo il 4-6 per cento della produzione industriale italiana deriva da settori ad alta tecnologia. Ancora, nel nostro paese non sono più di mezza dozzina le imprese che svolgono oggettivamente ricerca. Per questo, prima di pensare a nuovi incentivi, che si aggiungano ai tanti che l’impresa italiana sta ricevendo da circa 30 anni per “l’innovazione tecnologica” è opportuno sviluppare un’imprenditoria che punti su giovani dotati di un’adeguata preparazione tecnico-scientifico. Farlo, tra l’altro, non costerebbe nulla. Basterebbe dirottare su questo tipo di industrie quei soldi attualmente destinati all’imprenditoria giovanile, generalmente tutte a bassa tecnologia. Ancora, lo Stato, con una sorta di meccanismo keynesiano, potrebbe chiedere direttamente prodotti tecnologicamente innovativi, generando egli stesso la domanda. Infine, è opportuno rivedere tutta l’attuale politica dei poli scientifico-tecnologici, spesso nati come scatole vuote, finalizzandoli ad effettivi progetti di trasferimento tecnologico, senza pretendere che a questo scopo provvedano enti destinati, invece, a produrre ricerca”.

Rocco Buttiglione – Udc, filosofo, eletto al Senato, membro della VII Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali) e della XIV Commissione permanente (Politiche dell’Unione europea), oltre che della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.

Quale dovrebbe essere il finanziamento alla ricerca che lo Stato dovrebbe garantire alla ricerca?
“Per prima cosa ricordiamoci che l’obiettivo del 3 per cento di Lisbona si divide in due parti: quella a carico dello Stato e quella a carico dei privati. Riguardo la prima, l’Italia non è messa particolarmente male. Certo, i finanziamenti andrebbero aumentati, ma il gap non è altissimo. Quello, piuttosto, a cui bisogna pensare è come spendere bene i soldi. Oggi i migliori cervelli italiani vanno all’estero perché sono pagati meglio, fanno una carriera più rapida e sono messi nelle condizioni migliori per fare ricerca. Le offerte, in termini economici e di opportunità, non sono certo paragonabili con le nostre, anche se magari l’incarico di ruolo – non così centrale come in Italia – arriva tardi. Ma se da questo punto di vista si può senza dubbio di più, il problema reale è l’investimento privato. E qui dobbiamo capire una cosa importante”.

Ovvero?
“Che per stimolare gli investimenti dobbiamo, per prima cosa, creare un rapporto vivo tra il sistema di ricerca e il territorio. Pensiamo al caso della Germania, dove questo problema non c’è a causa di alcune grandi imprese che, affondandosi a numerose sub-committenze, innervano l’intero sistema del paese. In Italia di grandi imprese ce ne sono poche e certo non in grado di fare tanto. Bisogna, pertanto, aiutare le piccole e medie aziende – soprattutto le piccole – ad aggregarsi, perché da sole non avranno né la capacità di valutare il loro fabbisogno di ricerca né avranno abbastanza risorse per promuoverla in modo autonomo. Bisogna creare, dunque, delle possibilità di dialogo tra aziende e territorio e generare le cosiddette best practices. Questo è un terreno che si gioca su un fronte fortemente localizzato, più che nazionale. Le realtà positive non mancano, e penso alla Regione Lombardia o all’Emilia Romagna. Bisogna partire da qui”.

Secondo lei quanti finanziamenti dovrebbero andare alla ricerca di base e quanta a quella finalizzata o applicata?
“Non credo che il punto vero sia questo. Il punto vero è che spendiamo poco nella ricerca perché la nostra realtà industriale è frammentata e, per molti aspetti, non ha bisogno di troppa ricerca. Quella italiana è un’economia in larga parte concentrata su sistemi maturi e che – e non mi si fraintenda – copia. Quando in sede europea ho tentato di promuovere il brevetto comunitario la perplessità italiana è stata grande proprio perché il nostro è un paese fa pochi brevetti e copia molto. Dobbiamo, dunque, riqualificare il sistema industriale abbandonando settori ormai obsoleti e creandone di più avanzati, perché altrimenti difficilmente riusciremo ad aumentare la spesa per la ricerca. Spesso i professori universitari agiscono in modo un po’ strampalato, a mio giudizio, là dove sostengono con fermezza che ogni denaro investito in tal senso rende di più. Questa è una baggianata. Investire in un settore nuovo, per tanti aspetti, richiede più sforzi proprio per fare partire la ricerca rispetto a un settore maturo – magari stanco – dove l’innovazione non è un requisito. Quindi le domande da porsi sono altre. Come sarà l’economia tra venti anni? Quali saranno i nuovi settori davvero importanti? Come potremmo permettere a tutte le regioni italiane – dal Veneto alla Calabria – di navigare tranquille? Come permettere loro di acquisire i processi necessari per ottenere vantaggi competitivi? Una nuova politica industriale è sempre una politica di ricerca, e viceversa”.

In linea di massima, alla luce di quanto ha detto, pensate a qualche sgravio fiscale in questo senso a favore delle imprese che investono in ricerca?
“Questo naturalmente sì, ma è sbagliato pensare che siano una panacea. Il processo da mettere in moto, lo ripeto, deve essere molto a più largo raggio. Se mancherà, infatti, una visione di un futuro progetto industriale nel quale le piccole e medie imprese del paese si possano collocare e investire, tutte insieme, nella ricerca, ebbene, non si andrà troppo avanti”.

Alberto Arrighi – La Destra,  eletto alla Camera dei deputati nel 2001 nella lista di Alleanza Nazionale, entra dapprima a far parte della Commissione Cultura e Istruzione e successivamente della Commissione Attività Produttive, Commercio e Turismo e della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati

Quale dovrebbe essere il finanziamento che lo Stato dovrebbe garantire alla ricerca (in termini di percentuale sul Pil)?
“Dobbiamo attrezzarci per raggiungere la soglia di Lisbona ed eventualmente superarla. Bisogna favorire fiscalmente le aziende che intendono proporre e supportare progetti legati alla ricerca in ambito pubblico e universitario. Maggiore è la partecipazione del privato in progetti pubblici catalogati (da considerare strategici anche ai fini dello sviluppo industriale della Nazione) meglio è: ovviamente a patto e condizione che non si stravolgano gli interessi generali a vantaggio di quelli dei singoli o dei gruppi. Lo Stato deve trovare la forza di finanziare la ricerca sulla base dell’obiettivo previsionale annuo del tre per cento sottraendo da questa quota le previsioni di investimento privato. A eccezione del campo medico-scientifico la decisione su quali progetti finanziare tra ricerca di base e applicata è decisione politica che va presa in base agli interessi nazionali in primo luogo”.

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