Oltre i limiti

La Terra è sovrappopolata (1). A chi afferma che questo sia un problema, si chiede di fornire una prova oggettiva del regime di sovrappopolazione. La domanda è legittima. Perché possiamo affermare che il pianeta è abitato da troppi esseri umani? Esistono osservazioni e misure che nell’ultimo decennio hanno tentato di dare una risposta. E l’hanno data. Oggi possiamo affermare con convinzione che il metabolismo socio-economico ha oltrepassato i limiti fisici del pianeta. Questa situazione è stata determinata dagli ultimi due secoli e mezzo di aumento esponenziale (2) della popolazione e dalla parallela crescita dello sfruttamento delle risorse. Il regime appena descritto è definito in lingua inglese con una sintetica espressione, overshoot, che significa letteralmente «oltrepassare», superare un limite, una barriera. Questa è un’esperienza che trova infiniti esempi nella vita di tutti i giorni. Andare oltre i limiti è una esperienza che si verifica in genere per la combinazione di tre fattori: la rapida crescita di una grandezza, la presenza di limiti o barriere a questa crescita e, infine, i ritardi nella percezione dei limiti e gli errori nel controllo della crescita [1].

Il fenomeno di crescita rapida che c’interessa in questo contesto è quello che ha riguardato la popolazione e l’economia materiale negli ultimi 200 anni. Non credo che ci sia bisogno di convincere nessuno del fatto che la crescita, e in particolare la crescita esponenziale, sia la regola per molte grandezze che caratterizzano il metabolismo socio-economico contemporaneo. Alcuni dati sono riportati in tabella 1.

Il limite fisico di cui ci occupiamo è definito dalle capacità di ricostituzione degli ecosistemi sotto l’effetto dello sfruttamento da parte dell’essere umano. Come fu a suo tempo evidenziato nel primo rapporto per il Club di Roma stilato nel 1971 (e pubblicato in Italia l’anno successivo) da Dennis Meadows e altri ricercatori del Massachussets Institute of Technology (MIT), I limiti dello sviluppo, le crescite esponenziali sono la forza guida che determina l’instaurarsi di un regime di overshoot ecologico. Mettere in luce la caratteristica delle crescite esponenziali fu uno, ma certamente non l’unico, dei meriti dell’opera dei ricercatori del MIT per il Club di Roma [2], che mostrarono l’attualità dell’eredità malthusiana. Oggi l’evidenza mostra che alcune grandezze macroscopiche, come la popolazione, non crescono più in modo esponenziale. Ma il fatto di aver trascurato gli effetti a lungo termine della crescita esponenziale e aver lasciato che il sistema evolvesse in modo spontaneo o, nel migliore dei casi, sotto l’unica guida delle leggi economiche, ha determinato quella situazione di superamento dei limiti fisici del pianeta.

Misura delle interazioni società umana-natura

Uno degli assunti di questo contributo è che sia possibile misurare la maggior parte delle risorse che l’umanità consuma e dei rifiuti che essa genera. In poche parole, che sia possibile avere un’idea quantitativa e sufficientemente dettagliata del metabolismo socio-economico. Due grandezze che misurano l’impatto umano sull’ambiente sono: l’Appropriazione della Produzione Primaria Netta da parte dell’essere umano (APPN) e l’Impronta Ecologica (IE, in inglese Ecological Footprint, EF). Si tratta  di due modi complementari per misurare l’entità del prelievo di risorse dagli ecosistemi naturali da parte delle società umane. Ambedue le grandezze mettono in relazione il metabolismo socio-economico con la bioproduttività della Terra e sono disegnate per fornire una più profonda comprensione della sostenibilità delle interazioni società-natura, ma sono anche uno strumento per intraprendere le azioni individuali e collettive finalizzate alla riduzione dell’impatto delle nostre azioni sull’ambiente naturale. Parleremo anche di un terzo indice composito, cioè determinato da diverse componenti, l’Indice di Sostenibilità Ambientale (ISA), che include anche fattori sociali ed economici per valutare paese per paese la sostenibilità di una società.

L’impronta ecologica. L’IE non è altro che «la misura della superficie di suolo coltivabile che una data popolazione o un individuo richiedono per produrre le risorse che consumano e assorbire i rifiuti che producono»[3]. È dunque un mezzo di valutazione dell’impatto degli individui, delle comunità locali, delle nazioni e dell’intera umanità sul resto della natura. La condizione necessaria per eseguire tale valutazione è la misurabilità dei consumi e dei rifiuti prodotti. Oggi si sa che l’umanità ha un’IE che eccede di più del 20 per cento le capacità produttive del pianeta [4-6]. In altre parole, noi stiamo consumando come se avessimo a disposizione una Terra più un ulteriore venti per cento di Terra. Oppure significa che ogni anno consumiamo risorse a una velocità per cui la loro rigenerazione richiederebbe un anno e  oltre due mesi. Questo vuol dire che stiamo consumando le risorse in modo irreversibile. Ma il dato globale non deve nascondere il fatto che le nazioni industrializzate, Europa e Stati Uniti in particolare, hanno un’IE tale che i loro cittadini consumano le risorse terrestri come se avessero a disposizione due, tre, quattro pianeti come la Terra. In altre parole, secondo la misura dei consumi umani in rapporto alla capacità rigenerativa del pianeta, i paesi industrializzati sarebbero in equilibrio se avessero a disposizione due, tre o quattro pianeti Terra.

Coerentemente con la definizione data, l’IE può essere rappresentata come numero di pianeti Terra necessari al sostentamento dell’attività socio-economica. L’evoluzione nel tempo di questa grandezza è riportata in figura 1 e mostra che la popolazione mondiale (e cioè 4,8 miliardi di persone, di cui  solo 600 milioni nei paesi sviluppati) era in equilibrio con la capacità bioproduttiva (o biocapacità) della Terra nella seconda metà degli anni Ottanta, quando la curva della domanda globale interseca la retta che rappresenta la capacità bioproduttiva del pianeta.

L’IE valuta l’area bioproduttiva totale necessaria per sostenere una definita attività socio-economica, ovunque essa si svolga sulla Terra. Così facendo, essa tiene in conto le tre funzioni degli ecosistemi usati dagli umani: la fornitura di risorse, l’assorbimento dei rifiuti e lo spazio utilizzato per le infrastrutture della società. Le componenti dell’impatto umano includono sei attività principali che richiedono spazio bioproduttivo:
1)la produzione agricola di cibo per l’uomo e per gli animali da allevamento, di fibre, oli e gomme;
2)l’allevamento di erbivori per la produzione di carne, latte, pelle e lana;
3)la raccolta di legname come materiale strutturale, carta, fibre e come combustibile;
4)la pesca in mare e nelle acque interne;
5)l’occupazione di spazio per le infrastrutture umane: strutture residenziali, trasporti, industria e produzione energetica;
6)l’uso dei combustibili fossili.

In pratica l’IE è una grandezza che misura l’area bioproduttiva necessaria alle attività di comunità e di singoli individui. Si può quindi calcolare l’IE di ciascuno di noi, delle nazioni e dell’intera umanità. Questa grandezza è in genere espressa in unità di area, comunemente in ettari. Ciascuna attività viene espressa in unità di area attraverso fattori di equivalenza [4]. Una volta espresso in ettari equivalenti l’impatto viene aggregato in una unica figura di merito che rappresenta l’area bioproduttiva necessaria a sostenere le attività descritte. L’impronta ecologica delle varie aree del pianeta è riportata in figura 2 in unità di ettari equivalenti pro capite.

Attualmente vi sono 11,4 miliardi di ettari biologicamente produttivi disponibili sul pianeta distribuiti fra terre emerse e mari. Dividendo questo numero per il numero di persone viventi oggi – 6,3 miliardi nel 2003 – si ha una media di area bioproduttiva disponibile pro-capite di 1,8 ettari globali per persona. In base ai dati disponibili, il deficit globale ammontava nel 2001 a 0,4 ettari/procapite. Questo valore è la differenza fra l’IE totale (2,2 ha) e la biocapacità (1,8 ha), esso non tiene conto delle necessità delle altre specie perché non esiste, al momento, una precisa misura quantitativa di questa grandezza. È evidente che parte della bioproduttività debba essere lasciata alle altre specie. Edward O. Wilson [7] suggerisce di lasciare alle altre specie circa la metà degli 1,8 ettari bioproduttivi procapite. Il problema sarebbe dunque, come vivere con una media di 0,9 ettari globali per persona. L’IE di alcune singole nazioni divise per aree geografiche è riportato nella tabella 2. Come si vede, per i paesi industrializzati il deficit ecologico ha valori molto maggiori della media globale. Come si è detto l’IE può essere stimata per l’intera umanità, per le nazioni, ma anche per i singoli individui quando se ne conosca con ragionevole precisione i consumi. Ho stimato la mia impronta ecologica e ho calcolato un valore minimo di 2,5 e un massimo di 4,5 ettari globali a seconda delle risposte che fornisco (cercando di essere il più accurato possibile riguardo i miei consumi). Il mio personale debito ecologico ricavato prendendo la bioproduttività procapite dell’Italia (1,1 ha) è dunque nell’intervallo fra 1,4 e 3,4  ettari globali. È mia intenzione abbassarlo. Si noti che la media nazionale italiana dell’IE (3,8 ha) è leggermente inferiore alla media europea. Questo non è il risultato di un generale atteggiamento ecologicamente virtuoso degli italiani ma è conseguenza del fatto che gli italiani hanno una dieta meno ricca di carne, si spostano in genere meno per raggiungere il posto di lavoro e vivono in abitazioni mediamente meno estese degli altri europei.

L’appropriazione umana della produzione primaria
. La Produzione Primaria (PP) è la quantità di materia organica prodotta dagli organismi fotosintetici (le piante verdi, le alghe e alcune specie di batteri). La materia organica prodotta attraverso la fotosintesi è la base della vita sul nostro pianeta e per questo motivo gli organismi fotosintetici vengono anche indicati come produttori primari. La fotosintesi è una reazione chimica che trasforma l’energia luminosa (in natura la luce del Sole) in energia chimica immagazzinata in certe molecole organiche (gli zuccheri). Dal punto di vista chimico essa produce una molecola di zucchero e sei molecole di ossigeno a partire da sei molecole di anidride carbonica (CO2) e sei molecole di acqua. Per questo motivo si dice anche che nella fotosintesi il carbonio (C) presente nella CO2 atmosferica viene «fissato»nei tessuti vegetali. Coerentemente con lo schema sommariamente delineato, la produzione primaria viene misurata in grammi di carbonio (g C) «fissati»nell’unità di superficie (per esempio: metro quadro, indicato come mq o m2) e per unità di tempo (per esempio: anno).

I produttori primari utilizzano una parte degli zuccheri prodotti nella fotosintesi per sostenere il proprio metabolismo; facendo ciò essi «bruciano»una parte dei prodotti fotosintetici emettendo CO2 in un processo analogo a quello della respirazione animale. La quantità di PP, cioè la quantità di carbonio fissato nella fotosintesi, ripulita dalla quantità di carbonio riemessa nella respirazione, costituisce la Produzione Primaria Netta (PPN). L’appropriazione di questa quantità da parte dell’essere umano (APPN) costituisce una misura della pressione dell’essere umano sul resto della natura.

In un lavoro pubblicato su Nature nel giugno scorso [8], la PPN viene misurata per via satellitare e confrontata con i consumi locali di cibi, fibre, e materiali di origine vegetale. I risultati di questa ricerca sono abbastanza chiari e forniscono una misura del livello di sovrappopolazione del pianeta e dell’intensità di sfruttamento delle risorse naturali da parte degli esseri umani. Il prodotto principale della ricerca sono le due mappe dell’APPN riportate in figura 3 e direttamente scaricabili da Internet. Ambedue le mappe riportano l’APPN. Esse differiscono per l’unità di misura usata: quella in alto riporta l’APPN in grammi di carbonio fissati per anno e quella in basso in percentuale della PPN totale rilevata dal satellite nell’unità di area. La mappa in basso riporta la percentuale di APPN rispetto alla PPN disponibile per unità di area. Si noti che la PPN è un dato sperimentale ottenuto mediante osservazioni dal satellite, mentre l’APPN è una stima fatta considerando i consumi nelle varie aree geografiche. Il risultato globale è, a mio parere, abbastanza impressionante. L’umanità, che rappresenta circa l’1 per cento della biomassa animale totale, si appropria di una quantità compresa fra il 20 e il 26 per cento della PPN. Ma questo è un valore medio. In alcune aree del pianeta infatti, il livello di appropriazione supera il 100 per cento e raggiunge valori parossistici fino al 40.000 per cento. La costa orientale degli Stati Uniti, gran parte dell’Europa, il Medio Oriente, il subcontinente indiano e parti consistenti del Sud-Est asiatico e di Cina e Giappone dipendono interamente dal continuo apporto esterno di materiali e cibo di origine vegetale.

L’indice di sostenibilità ambientale. Nel gennaio del 2005 è stato pubblicato l’Indice di Sostenibilità Ambientale (ISA) da parte del Yale Center for Environmental Law and Policy della Yale University e del Center for International Earth Science Information Network della Columbia University e in collaborazione con World Economic Forum di Ginevra e il Joint Research Center della Comunità Europea di Ispra. L’ISA è un indice aggregato che si propone di valutare la capacità delle nazioni di proteggere il proprio ambiente nei prossimi decenni, tenendo conto di una serie di variabili di tipo socio-economico, ambientale e istituzionale. Gli estensori di questo rapporto sull’ISA, che segue il rapporto pilota e quelli del 2001 e del 2002, hanno annunciato lo sviluppo di un Indice di Adempimento Ambientale (Environmental Performance Index, EPI) [9].

La sostenibilità è una caratteristica dei sistemi complessi di conservarsi nel tempo. La sostenibilità ambientale riferita al livello nazionale riguarda la capacità dei diversi paesi di conservare le proprie risorse ambientali nel lungo periodo che, nell’accezione dei ricercatori di Yale, significa alcuni decenni. Gli autori si pongono espressamente in una posizione di equilibrio fra un punto di vista puramente ecologico e uno economico. Coerentemente con questa impostazione, l’ISA contiene informazioni che riguardano sia le risorse naturali di un dato paese che le sue caratteristiche sociali e istituzionali. Secondo le parole degli autori l’ISA di una data società «è la misura della dotazione di risorse naturali, della storia ambientale, della quantità e dei flussi dell’inquinamento e del tasso di sfruttamento delle risorse e anche dei meccanismi istituzionali e le potenzialità e competenze finalizzate alla modifica dell’inquinamento e delle traiettorie nell’uso delle risorse» [9].

L’ISA è costituito da cinque componenti: Ecosistemi, Riduzione degli stress ambientali, Riduzione della vulnerabilità umana, Potenziale sociale e istituzionale, Amministrazione globale. Ciascuna componente è costituita da un numero da tre a sei indicatori per un totale di 21 indicatori e ciascun indicatore è costituito da un certo numero di variabili. Per esempio, gli indicatori e le variabili che determinano la componente Ecosistemi dell’ISA sono riportate nella tabella 3.

Il punteggio ISA è determinato dalla media dei 21 indicatori egualmente pesati. Le prime posizioni della classifica ISA sono occupate dai paesi scandinavi e dall’Uruguay, paesi con bassa densità demografica e una dotazione ambientale molto ricca. Gli ultimi della scala sono, viceversa, paesi che presentano problemi in alcune o in tutte le componenti che determinano l’ISA. In figura 4 è riportato il grafico del punteggio ISA in funzione della posizione nella classifica dei vari paesi.

Si possono individuare tre zone principali del grafico. La prima è relativa ai sei paesi con il punteggio più alto. La seconda è quella in cui il punteggio decresce in modo praticamente lineare dal valore di 64,4 del Canada fino a quello di 42,3 delle Filippine: questa è la zona che comprende il maggior numero di paesi, che potremmo indicare come zona della medietà (o mediocrità) ambientale. Infine, c’è un gruppo di 20 paesi per i quali il punteggio ISA decresce in modo più rapido. Da notare la posizione del Gabon, dodicesimo ma anche primo paese africano in questa classifica, e del Belgio, che fra i paesi OCSE fa peggio solo della Corea del Sud. Delle cinque componenti dell’ESI, due – Ecosistemi e Riduzione degli Stress Ambientali – sono legate strettamente alla valutazione dell’ambiente e della pressione antropica su di esso esercitata. Altre due – Riduzione della vulnerabilità umana e Potenzialità sociale e istituzionale – sono principalmente legate ad aspetti socio-economici e politici, mentre la quinta – Amministrazione globale – riguarda sia aspetti socio-economici e politici che ecologici. A questo proposito, e in risposta alle critiche mosse in passato circa la composizione dell’indice ISA, gli autori hanno pubblicato una interessante tabella, che riproduciamo interamente (tabella 4), dove si indica il peso percentuale delle diverse sfere di azione politica che determinano la sostenibilità ecologica nella procedura di calcolo dell’indice ISA delle 146 nazioni considerate.

È evidente, per gli estensori del rapporto, l’urgenza di porsi in una posizione intermedia fra economia ed ecologia. La classifica premia quei paesi che pur mantenendo un livello eccellente di competitività economica e di sviluppo industriale hanno operato in modo da ridurre gli stress ambientali. Nella componente definita come Riduzione degli Stress Ambientali sono inclusi gli effetti della dinamica demografica. L’indicatore relativo è definito come Riduzione della pressione demografica ed è composto da due variabili: la percentuale di variazione della popolazione prevista per il periodo 2004-2050 e il tasso di fertilità totale. È abbastanza consolante che chi si occupa di sostenibilità sia indotto a introdurre un premio per i paesi che hanno la dinamica demografica sotto controllo, altresì è poco convincente il fatto che le variabili demografiche pesino, nella media uniforme di cui abbiamo parlato, solo il 5 per cento sulla composizione dell’ISA. Gli estensori del rapporto, pur tenendo in conto la dinamica demografica non riportano alcun dato o grafico di correlazione fra variabili demografiche e ISA. Da elaborazioni da noi fatte [10] risulta che vi sia una correlazione positiva fra ISA e densità di popolazione all’interno di aree economicamente omogenee. Cioè, a parità di condizioni economiche, una maggiore sostenibilità corrisponde a una minore densità di popolazione.

Il picco di produzione del petrolio

La fotografia del mondo che abbiamo presentato, e in particolare quella che esce dalla mappa dell’APPN, appare anche come una semplice misura quantitativa del livello di globalizzazione dell’economia. In effetti, le zone rosse, arancione, e gialle, corrispondono anche alle aree di maggiore industrializzazione. Sono aree di trasformazione che dipendono dalle materie prime, non solo di origine vegetale, prodotte altrove. Ma una riflessione sul modo in cui questo continuo afflusso di risorse è sostenuto, rende la fotografia poco rassicurante. L’afflusso di cibi, fibre, e altre materie prime è, infatti, interamente sostenuto da un sistema di trasporti che dipende per l’80 per cento dal consumo di fonti di energia fossile, e prevalentemente dai derivati del petrolio. La dipendenza dai combustibili fossili è divenuta una regola delle società industriali dalla rivoluzione industriale in poi. Questa dipendenza si è accentuata nel secolo scorso e si è specializzata ulteriormente nella dipendenza da un’unica risorsa: il petrolio. È sufficiente guardarsi intorno per rendersi conto del grado di dipendenza dal petrolio delle nostre società, e non solo per quanto riguarda i trasporti. La nostra dipendenza dal petrolio tocca attività di primaria importanza ma soprattutto l’agricoltura industriale moderna che, da questo punto di vista, è un modo più o meno efficiente di trasformare petrolio in cibo [11, 12]. È ovvio infatti che tutti i macchinari utilizzati in agricoltura sono basati sull’uso del motore a scoppio. Inoltre, l’agricoltura non dipende dal petrolio solo per l’aspetto energetico ma anche per la sintesi dei pesticidi, dei fertilizzanti e per i materiali plastici utilizzati in varie attività agricole come irrigazione, confezionamento e conservazione dei prodotti. L’uso del petrolio è l’irrinunciabile base energetica della rivoluzione verde.

Sfortunatamente, il petrolio si è formato centinaia di milioni di anni fa, in un processo durato molti milioni di anni e non è perciò una risorsa rinnovabile (3). Nessuna altra fonte fossile lo è. Altrettanto sfortunatamente previsioni fatte dai più diversi organismi internazionali, che vanno da agenzie come l’EIA (Energy Information Administration) [13] ai centri studi delle compagnie petrolifere, prevedono un picco di produzione del petrolio entro questo secolo, osservatori indipendenti e certamente più disinteressati lo prevedono molto prima [14-16]. Ancora più sfortunatamente le risorse energetiche che potrebbero sostituire il petrolio sono meno convenienti del petrolio da molti punti di vista e non sono state sviluppate ancora sufficientemente. Un recente studio commissionato dal governo americano ha tentato di fare un modello quantitativo della transizione attraverso il picco e di immaginare le politiche necessarie a mitigarne gli effetti [17]. La compagnia petrolifera Chevron ha aperto un sito Internet dedicato al dopo era del petrolio nel quale invita tecnici, scienziati e cittadini a unirsi nello sforzo per disegnare il futuro energetico. In questo sito, intitolato Will you join us?, si legge: «L’energia sarà una delle questioni determinanti di questo secolo. Una cosa è chiara: l’era del petrolio facile è finita» (4).

Il modello Hubbert. Il picco di produzione rappresenta il massimo della quantità di risorsa che può essere estratta, indipendentemente dalla domanda. E dunque non corrisponde all’esaurimento di una risorsa mineraria. Lo studio di questo aspetto della produzione mineraria si deve al geologo Martin King Hubbert che nel 1954 previde con successo il picco di produzione del petrolio degli Stati Uniti  del 1971. Il modello di Hubbert è piuttosto semplice [18; 19]. Una risorsa mineraria viene in genere sfruttata in un processo che è indipendente dal tipo di risorsa.

Prima vengono sfruttati i giacimenti più accessibili per i quali sono sufficienti investimenti relativamente modesti, in questa fase la produzione aumenta in modo rapido poi, man mano che la difficoltà di estrazione aumenta, la produzione rallenta fino a raggiungere un picco (il Picco di Hubbert o picco di produzione). A questo massimo, che si colloca approssimativamente in corrispondenza del momento in cui la metà delle riserve esistenti è stata estratta, segue un declino inesorabile della produzione secondo una curva a campana. Il modello di Hubbert si adatta alla storia estrattiva di varie risorse minerarie ed è stato verificato, con piccole modifiche, in molti casi di giacimenti minerari. Nel caso della produzione petrolifera nella seconda metà del secolo scorso si sono osservati un certo numero di picchi locali, il primo nel 1970 proprio quello degli Stati Uniti.

La novità della situazione attuale consiste nel fatto che il picco, previsto nella prima metà di questo secolo, è un picco di produzione globale. Se in seguito al superamento del picco di Hubbert nel 1971 le compagnie petrolifere statunitensi trovarono conveniente delocalizzare la produzione in altri paesi, e in particolare in Medio Oriente, oggi, a meno di improbabili imprese fantascientifiche, dopo che sarà stato superato il picco globale, non ci saranno altri posti dove andare a estrarre petrolio. L’era del petrolio a buon mercato volgerà inesorabilmente alla fine. È necessario ripetere fino alla noia, per evitare equivoci, che il raggiungimento del picco di Hubbert non corrisponde all’esaurimento delle riserve di petrolio, significa la fine del petrolio «facile», la fine del petrolio a buon mercato.

La realtà del picco di Hubbert. Una delle prove più convincenti dell’avvicinarsi del picco di Hubbert per il petrolio è stata fornita nel 2002 da una delle grandi compagnie petrolifere, la Exxon-Mobil. Essa è costituita dalla curva storica delle scoperte di nuovi giacimenti. Questo grafico, riportato in figura 5, mostra il crescente divario fra i consumi di petrolio e le nuove scoperte.

Secondo le stime dell’Association for the Study of the Peak-Oil & Gas (ASPO) (5) il picco di Hubbert del petrolio convenzionale dovrebbe essere raggiunto molto presto, nel 2010. Queste stime potranno essere riviste in seguito all’eventuale conferma di nuove scoperte annunciate in Russia (200 miliardi di barili) [20] o altrove, ma non ci si attende che il picco possa spostarsi di molti anni grazie a queste scoperte ancora da confermare. Tuttavia, in questa circostanza, qualche anno potrebbe essere un tempo prezioso per l’umanità, purché ci si decida a fare un uso ragionevole del tempo a nostra disposizione. Non abbiamo spazio in questa sede per un’indagine dettagliata di tutti gli indicatori che mostrano l’approssimarsi del picco di Hubbert petrolifero. L’ASPO pubblica periodicamente una newsletter con analisi e stime aggiornate che riguardano sia le riserve accertate sia le proiezioni. A questa e ad altre pubblicazioni riportate nella bibliografia si rimanda per eventuali approfondimenti. Una semplice ricerca in Internet con le parole chiave «picco di Hubbert» o «peak oil»farà comunque trovare una sufficiente mole di dati immediatamente disponibili.

Le alternative al petrolio e i limiti della crescita

Abbiamo già parlato della dipendenza della nostra società globale dal petrolio. Sarà importante discuterne di nuovo prima di esaminare la realtà delle possibili alternative energetiche. La produzione di cibo dipende largamente dal petrolio in ogni singolo anello della catena produttiva [12]. Ma c’è altro: la potabilizzazione e la distribuzione dell’acqua dipende dal petrolio, la medicina moderna con i farmaci e i vari materiali medici dipendono dal petrolio, la produzione di materiali polimerici (plastiche) e l’estrazione di risorse minerarie strategiche come rame e ferro dipendono sempre dal petrolio. Tutta questa dipendenza non può essere eliminata e neppure alleviata magicamente da un anno a un altro. Purtroppo non crediamo che i segnali forniti dal sistema dei prezzi siano sufficientemente rapidi per segnalare la scarsità assoluta di cui stiamo parlando. Quando il picco di Hubbert sarà raggiunto dovremmo essere già sulla strada della sostituzione di questa risorsa se non si vuole andare incontro al collasso che molti prevedono.

Le ragioni dello straordinario successo del petrolio come fonte energetica sono molteplici. Si tratta infatti di una risorsa che fornisce una gamma di prodotti energetici adatti a diversi usi: kerosene, nafta, benzine ecc., è facilmente trasportabile e ha un’elevata densità energetica. Un confronto con il carbone, per esempio, mostra che a parità di quantità di energia fornita questo pesa dal 50 al 200 per cento in più del petrolio.

Nell’esaminare le alternative al petrolio una società si deve porre una serie di domande che riguardano proprio l’estrema convenienza del petrolio come sorgente energetica, e la dipendenza delle nuove fonti, almeno in una fase iniziale, dal petrolio stesso. Se si pensasse di scegliere un’alternativa basata sulle rinnovabili con cui mandare avanti l’intera società – per esempio, solare ed eolico per produrre elettricità – andremmo incontro a grandi problemi e, probabilmente, grandi delusioni. Quanto tempo e quanta energia tratta dai combustibili fossili ci vogliono, per esempio, per sostituire gradualmente un intero parco di molti milioni di veicoli basati sul motore a scoppio con uno basato su motori elettrici? E per concepire e mettere in atto una transizione al nucleare o ad un’altra tecnica di produzione energetica?

Pensando alla bassa intensità energetica delle fonti rinnovabili, rispetto al petrolio, ci si rende conto subito che esse sono inadeguate a sostenere una società in continua crescita. I fautori della crescita, infatti, hanno pochissima simpatia per le fonti rinnovabili, essi preferiscono scelte quali il carbone, il nucleare e l’idrogeno. L’idrogeno è, in effetti, un vettore e non una fonte energetica primaria, quindi non vale la pena neanche di parlarne se non per dire che, per ora, resta un sogno per un futuro non si sa quanto realizzabile e lontano. Carbone e nucleare hanno il problema di essere comunque risorse non rinnovabili, soggette quindi allo stesso problema del petrolio, e continuano ad avere, in modo diverso, pesanti implicazioni in termini di impatto ambientale e sociale. È probabile che se ne farà largo uso negli anni a venire e le indicazioni confermano che i paesi in via di sviluppo stanno attrezzandosi per sfruttare al massimo queste fonti. Le conseguenze in termini di Impronta Ecologica globale non sono al momento prevedibili, ma ci si attende che saranno disastrose se l’uso di queste fonti non sarà fatto in parallelo a un generalizzato calo dei consumi indotto da una decrescita demografica e da una generalizzata diminuzione degli sprechi attraverso l’uso di tecnologie più efficienti.

Collasso o sostenibilità

L’umanità si confronta oggi con alcuni dilemmi di grande portata. La crescita esponenziale della popolazione negli ultimi due secoli e mezzo ha reso gigantesca l’impronta dell’essere umano sul pianeta, se confrontata con quella delle altre specie viventi. Un aspetto fondamentale e mai sufficientemente valorizzato della consapevolezza ecologica è che essa non si basa su principi morali, ma su considerazioni razionali e solidi principi scientifici. L’essere umano non è indipendente dal resto della natura ma ne è parte integrante, e le conseguenze di un collasso ecologico sarebbero disastrose per la stessa società umana. Purtroppo le classi dominanti sembrano incapaci di cogliere la maggior parte delle urgenze che si stanno accumulando e non sembrano propriamente attrezzate per farlo. Nel mondo prevalgono ideologie antropocentriche, laiche o religiose che siano, che si sforzano di conteggiare i danni inflitti all’ambiente in una contabilità tutta umana fatta di un solo parametro, la ricchezza, misurata da un’unica unità di misura: il denaro. Così la religione dell’economia di mercato pensa di governare un sistema complesso come l’ecosistema globale. L’inadeguatezza di una simile tecnica di governo è tanto evidente da lasciare sconcertati. I fautori della crescita dicono spesso che la storia ha dimostrato che le paure dei catastrofisti sono sempre state smentite. Io mi chiedo quanti catastrofisti sono stati smentiti nei crolli storicamente accertati delle grandi civiltà del passato. Se c’è qualcosa che la storia ha dimostrato è che le civiltà prosperano, crollano o sopravvivono per un numero limitato di fattori, per primi quelli ambientali. Grandi civiltà del passato sono crollate proprio per i danni inflitti all’ambiente in cui si erano sviluppate [21].

Una valutazione delle azioni dell’essere umano da un punto di vista meno miope dell’umanesimo antropocentrico mostra che dal punto di vista comportamentale Homo sapiens ha una strategia ecologica non rigida. Questo è un motivo di speranza perché, se in determinate circostanze si comporta esattamente come un flagello al pari delle cavallette, in altre mostra una capacità di stabilizzazione all’interno di un dato ecosistema. La strategia delle cavallette è basata sul consumo totale delle risorse disponibili in una data area e la successiva migrazione in un’altra area [22]. Forse non è un caso che gli estremi fautori della crescita siano anche molto affezionati all’idea della colonizzazione interplanetaria. Nella sua storia biologica, però, l’umanità ha anche mostrato di sapersi adattare e raggiungere uno stato di presenza sostenibile sul territorio da essa occupato [22]. La scelta di un modello o di un altro sembra essere determinata essenzialmente dalla struttura sociale e, in particolare, dalla capacità delle élites di isolarsi dai problemi ecologici [21]. Quindi la reazione alle emergenze incombenti richiederà uno sforzo che non può più essere solo locale o regionale ma che deve essere globale. Tuttavia, la possibilità che si adottino politiche di rientro dolce dipenderà in parte anche dal grado di consapevolezza dei cittadini delle società più avanzate.

È singolare scoprire che a trenta anni dalla pubblicazione del famoso rapporto del MIT per il Club di Roma il dibattito sia rimasto allo stesso punto di allora. Chi non riesce a vedere altro che una crescita a tempo indefinito, forse limitata in qualche secolo lontano, nega le ragioni di chi mostra i limiti fisici del pianeta. Altre critiche avrebbero potuto essere fatte agli estensori di quel rapporto proprio dove essi si dedicavano alla proposta politica (6). Per gli autori de “I limiti dello sviluppo”, infatti, il rientro a un regime «sostenibile»dovrebbe avvenire [1, 2] con una serie di improbabili azioni intergovernative, di organismi sovranazionali di vario genere che presuppongono una sorta di Governo Mondiale o di Superstato che, anche proposto con le migliori intenzioni, fa correre brividi lungo la schiena di un libertario ancora affezionato all’idea hamiltoniana di federalismo. Quelle critiche, se ci furono, furono minime, e quello che resta è la critica del merito delle questioni sollevate. Questioni che, al contrario, appaiono oggi, ancor più di trent’anni fa, ineccepibili. Trenta anni perduti a negare dei fatti, per paura di dover accettare le ricette «dirigistiche»che alcuni hanno pensato come modo di affrontarne le conseguenze. Invece di cercare una soluzione diversa ci siamo attardati a tranquillizzare noi stessi sulla infondatezza degli allarmi. Il «classico»di questa letteratura negazionista e «ansiolitica», una sorta di Prozac ideologico, è la famosa opera di Bjørn Lomborg: L’ambientalista scettico [23]. Questo testo costituisce una imponente raccolta di dati, oggi un po’ datata, ma comunque utile, che si caratterizza per un aspetto metodologico fondamentale: il riportare solo i dati che avvalorano la tesi, francamente risibile se non fosse tragicamente falsa e truffaldina, che «viviamo in un mondo meraviglioso».

NOTE

(1)Questo articolo è una rielaborazione del contributo per il convegno Demografia e consumi… quali limiti?, promosso dalla Lista Bonino alla Regione Piemonte, Torino 15 gennaio 2005.

(2)La crescita esponenziale di una grandezza si verifica quando questa cresce nel tempo a un tasso proporzionale al valore della grandezza stessa. Una crescita lineare, al contrario, si verifica quando la grandezza cresce di una quantità costante nel tempo.

(3) Vi è una  teoria sull’origine abiotica del petrolio secondo la quale il petrolio si formerebbe continuamente in una zona a cavallo fra il Mantello e la Crosta terrestre per trasformazione delle rocce carbonatiche. A prescindere dalla validità di questa teoria, il tasso di produzione abiotica sarebbe comunque insufficiente a modificare l’analisi sul picco del petrolio presentata in questo contributo.    

(4)Si veda il messaggio-appello della Chevron all’URL: http://www.willyoujoinus.com.
(5)ASPO è una associazione libera e non formale rappresentata a livello internazionale dal geologo Colin J. Campbell. Campbell, oggi in pensione, ha lavorato come geologo prospettore alla Texaco e come geologo capo alla Amoco in Ecuador. Ritiratosi in pensione, si è dedicato allo studio del picco di Hubbert petrolifero scrivendo libri e articoli (si veda la bibliografia) in cui ha fornito una critica particolarmente efficace delle modalità di stima delle riserve accertate da parte sia delle compagnie petrolifere che dei paesi produttori. In Italia l’ASPO si è costituita intorno al prof. Ugo Bardi dell’Università di Firenze, come associazione telematica ed è attiva dal settembre del 2003 come gruppo di discussione yahoo all’URL: http://groups. yahoo.com/group/petrolio/. Si veda anche www.peakoil.net e www.aspoitalia.net.
(6)È ovvio che anche gli aspetti tecnici de I Limiti dello Sviluppo, e in particolare i modelli di simulazione usati dagli autori, sono soggetti a critiche e revisioni circostanziate. Così va la scienza dopo Galileo.

BIBLIOGRAFIA
[1] MEADOWS DONELLA, RANDERS JORGEN, MEADOWS DENNIS, Limits to Growth, the 30Year Update, Chelsea Green Publishing, 2004.

[2] MEADOWS DONELLA, MEADOWS DENNIS, RANDERS JORGEN, BEHRENS WILLIAMW. III, I Limiti dello Sviluppo. Rapporto del System Dynamic Group MIT. per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, Biblioteca della EST, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1972. Il testo è oggi praticamente introvabile in libreria.

[3] Global Footprint Network: www.footprintnetwork.org/.

[4] WACKERNAGEL M., SCHULZN B., DEUMLING D., LINARES A.C., JENKINS M., KAPOS V.,  MONFREDA C., LOH J., MYERS N., NORGAARD R. e RANDERS J., «Tracking the Ecological Overshoot of the Human Economy», Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 99, 2002, pp. 9266-9271. Scaricabile all’URL: www.pnas.org/ cgi/content/abstract/99/14/9266?view=abstract.

[5] HABERL H., WACKERNAGEL M., KRAUSMANN F., ERB K.H. e MONFREDA C., «Ecological Footprints and Human Appropriation of Net Primary Production: a Comparison», Land Use Policy, 21, 2004, pp. 279-288.

[6] HABERL H., WACKERNAGEL M. e WRBKA T., «Land Use and Sustainability Indicators. An Introduction», Land Use Policy, 21, pp. 193-198 (2004).

[7] WILSON EDWARD O.,  The Future of Life, Alfred A. Knopf 2002. Un capitolo intitolato: «Bottleneck» è dedicato all’impatto ecologico umano e può essere letto all’URL dello Scientific American: www.sciam.com/article.cfm?articleID= 000E5878-3E45-1CC6-B4A8809EC588EEDF.

[8] IMHOFF M.L., BOUNOUA L., RICKETTS T., LOUCKS C., HARRISS R.e LAWRENCEW.T., «Global Patterns in Human Consumption of Net Primary Production», Nature, 429, 2004, pp. 870-873.

[9] ESTY DANIELC., 2005 Environmental Sustainability Index. 28 January 2005. www.yale.edu/esi/.

[10] PARDI LUCA, Un commento a proposito dell’Indice di Sostenilità Ambientale 2005, www.aspoitalia.it/index.php?option=com_content&task=view&id=42&Itemid=38.11 luglio 2005.

[11] PFEIFFER DALEA., «Eating Fossil Fuels»,  Oct 3, 2003. Articolo archiviato all’URL: www.fromthewilderness.com/ free/ww3/100303_eating_oil.html. Una traduzione italiana di questo lavoro, curata da Aldo Carpanelli, può essere trovata all’URL: www.oilcrash.com/italia/eating.htm.

[12] PIMENTEL D.e GIAMPIETRO M., Food, Land, Population and the U.S. Economy, Carrying Capacity Network (1994). http://www.dieoff.com/page55.htm.

[13] WOOD JOHN H., LONGGARY R., e MOREHOUSE DAVID F., Long-Term World Oil Supply Scenarios, August 18, 2004. Report dell’Energy Information Administration: www.eia.doe. gov/pub/oil_gas/petroleum/feature_articles/2004/worldoilsupply/oilsupply04.html.

[14] CAMPBELL C.J. e LAHERRERE J.H., «La fine del petrolio a buon mercato», Le Scienze, 1998, pp. 78-84.

[15] DEFFEYES KENNETH S., Beyond Oil, the view form the Hubbert’s peak, Hill & Wang, 2005.

[16] CAMPBELL COLIN J.e BARDI UGO, Association for the Study of Peak Oil & Gas. www.peakoil.net. www.aspoitalia.it.

[17] HIRSCH ROBERT L., BEZDEK ROGER, e WENDLING ROBERT, «Peaking of world oil production impacts, mitigation, & risk management», febbraio 2005. www.hilltoplancers.org/stories/hirsch0502.pdf.

[18] BARDI UGO,  La fine del petrolio. Comubustibili fossili e prospettive energetiche per il ventunesimo secolo, Editori Riuniti, Roma 2003.

[19] BARDI UGO, «Un’introduzione alla teoria di Hubbert nella produzione di petrolio e di combustibili fossili»,  giugno 2004. Disponibile all’URL: www.aspoitalia.net/documenti/bardi/ hubbertintro/hubbertintrojun04.html.

[20] BUSH JASON, «Oil: What’s Russia Really Sitting On?», BusinessWeek Online 23 novembre 2004.

[21] DIAMOND JARED, Collapse: How Societies Choose to Fail or Succeed, Penguin Group Ltd, London 2005 (ed. it., Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino 2005).

[22] MAINARDI DANILO, L’animale irrazionale, Mondadori, Milano 2001.

[23] LOMBORG BJØRN, L’ambientalista scettico. Non è vero che la Terra è in pericolo, Mondadori, Milano 1999.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here