E’ in Libano Riptide, una delle orche di Genova. Mistero sulle altre tre

Orche
Foto di skeeze da Pixabay

Sempre più a sud, dall’Islanda al Medio Oriente. Continua l’avventura delle intraprendenti orche islandesi che lo scorso dicembre sono rimaste per oltre 20 giorni nel porto di Genova. Un gruppo di quattro individui adulti e un cucciolo, purtroppo morto pochi giorni dopo, protagonisti di una migrazione lunghissima, mai registrata prima per questi grandi mammiferi provenienti dalle acque del nord. Passate per la Sicilia alla fine del mese avevano fatto perdere le loro tracce. Poi il 19 e il 20 febbraio scorsi un esemplare maschio, battezzato Riptide, è stato avvistato vicino alle coste del Libano. Non proprio una buona notizia: l’animale è apparso solo e molto dimagrito.

"As Riptide is now in poor health, it is essential that members of the public give him space and do not attempt to…

Gepostet von Orca Guardians Iceland am Montag, 24. Februar 2020

Intanto, in un’altra località del Libano è stato rinvenuto il corpo mutilato di un’orca ormai non più identificabile.

Che problema hanno le orche di Genova?

Il ritrovamento è avvenuto sulle spiagge di Sarafand, una località non lontana dall’avvistamento di Riptide. Il corpo era praticamente dimezzato. Non è stato possibile identificarlo per avanzato stato di decomposizione, ma sembra probabile che si tratti di un altro membro del gruppo.

Yesterday, sadly, a dead orca was found on the shore of Sarafand, Lebanon. Our on-scene contact Ali Jaouhar rushed there…

Gepostet von Orca Guardians Iceland am Dienstag, 11. Februar 2020

“Non si capisce perché questi animali stiano morendo e siano così emaciati”, spiega Sabina Airoldi, biologa marina del Tethys Research Institute. “Questo gruppo di orche è entrato nel Mediterraneo ai primi di novembre, e quando sono comparse nel porto di Genova, dopo circa un mese, il piccolo, che è morto pochi giorni dopo, era già scheletrico, mentre un altro individuo appariva molto debilitato. È possibile che siano dimagriti così in poche settimane? Un’ipotesi è che non riescano a nutrirsi abbastanza, probabilmente perché hanno un’alimentazione molto specializzata a base di aringhe, come quella delle orche dell’Atlantico. Oppure stavano male già da prima, ad esempio per una forma virale”.

Il mistero potrebbe essere svelato, almeno in parte dalla necroscopia dell’individuo spiaggiato, di cui sono stati raccolti alcuni tessuti. La loro analisi potrebbe spiegare come è morto l’animale e dare informazioni sulla sua origine, grazie alla genetica. Resta il dubbio, accompagnato da una preoccupazione sempre crescente, sulla sorte delle altre orche della famiglia. “A volte in natura succede che i maschi si allontanino dal resto del gruppo, e questo ci lascia una flebile speranza. Ma, anche se non possiamo affermare nulla con certezza scientifica, personalmente non sono molto ottimista”, continua la ricercatrice.

In rete grazie alle orche

La storia eccezionale di questa famiglia di orche ha appassionato scienziati e addetti ai lavori ma anche moltissime persone che l’hanno seguita con trepidazione e hanno condiviso sui social foto e video dei loro avvistamenti. Di fatto, l’apparizione di questi grandi mammiferi, ospiti insoliti per i nostri mari, ha fatto nascere una rete di collaborazione non solo fra istituti di ricerca internazionali, come Orca Guardians Iceland, lo stesso Tethys e l’Università di Genova, ma anche fra scienziati e cittadini. Una collaborazione che, secondo la ricercatrice, deve essere sempre più incentivata per proteggere i mammiferi marini, come è emerso dall’ultimo World Marine Mammal Conference.

“A Barcellona lo scorso dicembre per la prima volta eravamo 2.700 cetologi da tutto il mondo”, racconta la Airoldi. “Abbiamo capito che se vogliamo davvero conservare queste specie è necessario un impegno e un coinvolgimento di tutti. Non basta da sola la ricerca scientifica, che ha risorse sempre più limitate, né bastano le misure politiche. Serve la consapevolezza e la responsabilità di ognuno, e perché questo avvenga non dobbiamo rinchiudere la conoscenza negli atenei, in ambito accademico: va condivisa con la gente, e nel caso dei cetacei soprattutto con gli utenti del mare. È un discorso che si potrebbe allargare anche al tema, più ampio, della salvaguardia ambientale: un reale cambiamento può partire solo dal basso, dall’adozione di nuovi comportamenti da parte dei singoli. E dato che cambiare abitudini richiede impegno ed energia, si può fare solo se siamo realmente motivati e ne capiamo il senso”.

Un’esperienza trasformativa

E proprio in questa direzione vanno le più recenti iniziative dei ricercatori di Tethys: “Negli ultimi anni abbiamo ospitato nelle nostre barche fra 7.000 e 8.000 persone da tutto il mondo”, continua la biologa. “Sono volontari e appassionati che vogliono vivere un’esperienza diversa, anche di lavoro e fatica, ricompensata sempre, però, da emozioni impagabili e inaspettate. Quando siamo fermi in mare possiamo vedere gli animali anche a pochi metri di distanza. E ci è capitato di vedere piangere professionisti che nella vita fanno tutt’altro, magari i commercialisti a New York. E poi ci dicono: ‘Grazie, ora ho capito’. A quel punto risparmiare l’acqua o la plastica diventano gesti spontanei”.

Condividere foto e video

Ma per aiutare a salvare il mare e i suoi abitanti può bastare anche molto meno. Ad esempio, condividere testimonianze di avvistamenti dei cetacei, video o foto che verrebbero comunque postati sui profili social. Questo materiale, sempre più diffuso, è una preziosa fonte di informazioni sulla presenza di specie più o meno rare nei nostri mari. “Noi per primi ormai andiamo a cercare notizie sui social, e anche nel caso delle orche di Genova il materiale pubblicato dagli utenti in rete è stato fondamentale per ricostruire il loro percorso”, sottolinea la biologa, che invita tutti a condividere foto e video degli animali avvistati in mare sul sito del progetto “Cetacei fai attenzione”, ideato da Tethys in collaborazione con la Guardia Costiera e il Fai. “Il primo anno abbiamo avuto circa 600 segnalazioni, il secondo 900“, va avanti Airoldi. “Con un piccolo gesto, che richiede meno di due minuti, si può contribuire al monitoraggio dei cetacei nel Mediterraneo, compensando la carenza crescente di fondi e di ricercatori. Più dati abbiamo, più forza avremo di chiedere alle istituzioni la salvaguardia e la conservazione di queste specie. Per questo diciamo sempre: ‘Regalateci i vostri occhi per un momento’”.

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