Parla il direttore di Nature

Un forum europeo di consultazione sull’insegnamento delle discipline scientifiche nelle scuole: è stato il ministro portoghese per la scienza e la tecnologia José Mariano Gago ad avanzare questa proposta al termine del convegno “Sapere di scienza e di tecnologia. Nuove idee in Europa” dove si è insistito sul ruolo fondamentale dell’istruzione scolastica per una maggiore diffusione della cultura scientifica nella popolazione. “Ma l’insegnamento della scienza è solo il primo passo di un lavoro ben più complesso”, avverte Philip Campbell, direttore del settimanale scientifico Nature e tra i relatori del convegno. “Intendiamoci. Anch’io sono fermamente convinto che una maggiore cultura scientifica di base aiuterebbe l’opinione pubblica a comprendere i vantaggi e i rischi potenziali della scienza e della tecnologia nel mondo moderno. Tuttavia, il livello di specializzazione a cui è giunta oggi la ricerca rende difficile, se non impossibile, l’aggiornamento continuo, persino per un esperto. Ogni volta che un argomento scientifico sale alla ribalta della cronaca – dai voli spaziali all’energia nucleare, dalla mucca pazza all’Aids – non è detto che un’alfabetizzazione diffusa possa aiutare il pubblico a comprendere con obiettività i termini della questione”.

Lei intende dire che l’opinione pubblica non sarà mai in grado di tenere il passo con la ricerca scientifica. Ma non è forse proprio questo sempre maggiore distacco del ricercatore dal proprio pubblico, questa incomunicabilità tra due livelli contrapposti, a far sì che la popolazione si senta impotente e dunque scettica verso alcuni risultati della ricerca scientifica?

“Sì certo. Ma le convinzioni e i pregiudizi che si radicano nell’opinione pubblica sono dovuti anche, e soprattutto, a fattori psicologici inconsci di fronte ai quali noi siamo impotenti. Non ne conosciamo l’origine e difficilmente possiamo prevederli. Soprattutto in momenti di crisi, come per esempio l’allarme per la diffusione dell’encefalite bovina spongiforme, i pregiudizi hanno una forza e una velocità di diffusione tali da rendere un’informazione corretta del tutto inefficace. In questi casi, una conoscenza superficiale dei problemi, ma tale da far sì che il pubblico consideri le proprie convinzioni ‘scientificamente fondate’, rischia di essere addirittura più dannosa dell’ignoranza stessa. Faccio un esempio: nel marzo del prossimo anno i cittadini svizzeri saranno chiamati a decidere sull’uso di animali transgenici nella ricerca. La convinzione diffusa che “transgenico non è bello” rischia in questo caso di interrompere, oltre a pratiche eticamente riprovevoli, anche ricerche di pubblica utilità: si calcola che ben 2.000 studi e 500 progetti saranno colpiti da una eventuale “messa al bando” del transgenico. Benché gli scienziati svizzeri si stiano adoperando con ogni mezzo per far comprendere alla popolazione l’importanza del proprio lavoro, non è dato prevedere in quale direzione si orienterà l’opinione pubblica”.

E cosa dice allora degli allarmismi generati dall’annuncio, fatto proprio dal suo giornale, della nascita di Dolly, la pecora clonata?

“Il “caso Dolly” è un esempio tipico di quanto sia difficile prevedere le reazioni suscitate da una notizia. Devo confessare che non immaginavo che la notizia potesse suscitare un tale clamore e così tanti allarmismi”.

Questo suona quasi come un mea culpa…

“Proprio così, e per un motivo ben preciso. Nel febbraio 1996, esattamente un anno prima che se ne parlasse, “Nature” pubblicò un articolo sulla clonazione che faceva chiaramente intuire gli sviluppi futuri della tecnica. Incerto era solo quando tutto ciò sarebbe accaduto. Proprio allora avremmo dovuto dare avvio a una campagna di divulgazione a tutti i livelli, in modo che il pubblico avesse conoscenze sufficienti per comprendere il significato della nascita di Dolly”.

Dunque è questa la sua ricetta?

“Si. Io credo che la comunità scientifica, in particolare le cosiddette learned societies, dovrebbe assumersi il compito di capire in anticipo quale sarà la possibile evoluzione della ricerca e preparare per tempo l’opinione pubblica ad accogliere notizie così sensazionali. E’ questo il solo modo per evitare fraintendimenti, errate credenze, e per diffondere un’informazione veramente corretta. E’ il solo modo per avvicinare il pubblico alla ricerca e far sì che abbandoni quella naturale diffidenza che ha verso tutto ciò che percepisce come estraneo. Quello che io auspico è un enorme sforzo comunicativo, sia da parte dei ricercatori – che devono abbandonare ogni forma di gelosia per il proprio lavoro – che dei mezzi di comunicazione, a ogni livello. Ho molta fiducia nella capacità del pubblico di “cercare la verità”, se opportunamente stimolato, e sono convinto che oggi sia molto affascinato dalla scienza: deve però poter trovare gli strumenti di informazione adeguati”.

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