Per una visione nuova della mente

Giovanni Foresti e Mario Rossi Monti
Esercizi di visioning. Psicoanalisi, psichiatria, istituzioni
Borla, 2010, pp. 286, € 30,00

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«Non è il sonno della ragione a generare mostri, ma una ragione senza sogni che tende a trasformare in realtà i nostri incubi peggiori». E’ questa convinzione ad animare lo spirito del libro, un mosaico di studi da cui trapela la passione degli autori per una pratica, quella incentrata sul disagio mentale,  che oggi più che mai dovrebbe cercare la propria linfa vitale in feconde ibridazioni e nella contaminazione tra diverse tradizioni. Ed è al rapporto tra queste diverse tradizioni, e in particolare tra psicoanalisi e fenomenologia, che sono dedicate alcune delle pagine più intense del libro.

Nonostante l’arroccamento di alcuni adepti su una presunta autosufficienza, oggi la psicoanalisi, con le sue recenti evoluzioni, e soprattutto con la sua estensione alle patologie gravi, potrebbe guardare con interesse alla psicopatologia che in cento anni di storia ha capitalizzato preziose risorse per comprendere le esperienze del patologico. Cedere alla tentazione fenomenologica potrebbe significare, per la psicoanalisi, imboccare una via d’uscita dalla crisi del primato dell’interpretazione, verso una valorizzazione della dimensione relazionale e dell’incontro. Ma a dover scegliere come se si trattasse di due alternative gli autori proprio non ci stanno: in un lavoro terapeutico è necessario sia interpretare sia comprendere, tanto lo scavo analitico quanto l’apertura al con-essere nella relazione. L’orizzonte della cura è infatti un orizzonte di complessità in cui devono coabitare diverse prospettive e diversi punti di vista, senza, però, alcuna concessione all’eclettismo. E’ su questa visione d’insieme, comprensiva ma rigorosa, che deve esercitarsi il visioning, termine che da un lato richiama l’analogia con il brain imaging proponendosi come mind imaging, e dall’altra rinvia al management dove indica la tensione creativa che spinge al cambiamento.

L’idea di base è che occorra una costante dialettica tra l’analisi della situazione presente e la proiezione nel futuro, e che soltanto mantenendo vivo il legame tra i due poli si possa generare evoluzione. Secondo Foresti e Rossi Monti l’esercizio di visioning deve iniziare a partire dalla diagnosi, che non può essere semplicemente la constatazione di una serie di sintomi ma che deve invece inserirsi in un progetto. Rilevando i limiti delle più recenti evoluzioni della diagnostica basata sui DSM, gli autori sottolineano la necessità di dare un significato ai sintomi reintegrandoli al vissuto della persona sofferente, cosi come anche l’esigenza di rifocalizzare la soggettività avvalendosi di un approccio fenomenologico che la consideri in base alle sue strutture invarianti.
Dare senso alle manifestazioni esteriori della sofferenza, penetrare nel mondo intimo di chi vive il disagio, avvalersi di molteplici modelli teorici non per disperdersi ma per alimentare il progetto di cura: sono questi gli obiettivi cui deve prestare attenzione lo psichiatra fenomenologicamente orientato.

L’inadeguatezza degli attuali criteri diagnostici riemerge con forza nello studio dedicato ai cosiddetti sintomi negativi della schizofrenia. Qui veniamo subito avvertiti che “ciò che chiamiamo schizofrenia è il risultato di una scelta convenzionale e provvisoria”, per assistere poi alla decostruzione dei molti miti che hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo del concetto di questa malattia. Prendendo le distanze dal predominante approccio biologista, che considera il disturbo l’epifenomeno di una causa organica e che ha cercato invano di rintracciarne l’origine in una lesione o un disfunzionamento cerebrali, gli autori s’interrogano su ciò che è considerato il nucleo sintomatologico portante della schizofrenia, rilevandone le incongruità e proponendo al lettore una domanda che suona provocatoria: i sintomi negativi della schizofrenia sono davvero negativi? Detto in altri termini, ciò che viene catalogato, per esempio, come “appiattimento affettivo” è semplicemente una carenza dell’affettività, con un segno meno davanti, o non esprime piuttosto un diverso orientamento dell’affettività, un modo di porsi del soggetto che ha un suo senso e una sua storia? E’ in questa seconda ottica che il sintomo non costituisce più un semplice item da spuntare per la diagnosi, ma piuttosto un momento nel divenire della vita psichica del soggetto. Diverso è il caso dei disturbi ossessivi, cui è dedicato un altro studio del libro. Qui abbiamo a che fare con un sintomo che richiama tratti specifici della nostra postmodernità, dove la proliferazione a dismisura degli stimoli ci fa sentire costantemente sotto assedio, cioè in una condizione che ha a che fare con l’essere assediati, e quindi con qull’obsidere da cui deriva la costellazione di termini che ruotano attorno all’ossessività. Il contributo che riguarda questo disturbo offre una panoramica storica delle diverse tradizioni che lo hanno concettualizzato, per poi introdurre e discutere due casi clinici, facendoci entrare nel vivo della questione. La scarsa attenzione che in tempi recenti viene dedicata ai disturbi ossessivi è una conseguenza, secondo i due autori, della babele di ipotesi e teorie da essi derivati. Ed ecco allora che vale la pena di concludere il contributo con la proposta di alcune integrazioni concettuali utili alla clinica.

La terza parte del volume, “lo psicoanalista al lavoro” inizia riprendendo l’ipotesi già accennata che la psicoanalisi abbia attinto il proprio armamentario tecnico e categoriale da altre discipline e da altri ambiti. In una visione laica della psicoanalisi, infatti, si può constatare che molto di ciò che avviene in seduta rientra nella tipologia delle comunicazioni e delle interazioni di ogni ordinario rapporto umano. Il peso degli elementi aspecifici che intervengono nel lavoro è allora molto maggiore di quanto molti psicoanalisti  non siano disposti ad ammettere. Il ruolo dei fattori aspecifici, comunque, non è l’unica questione con cui il lavoro dello psichiatra e dello psicanalista è oggi chiamato a fare i conti. Non bisogna dimenticare, infatti, che il sistema delle cure è un dispositivo sociale e che dipende da precise scelte politiche. Oggi il razionamento delle risorse e la difficoltà ad individuare definiti compiti istituzionali sono la spada di Damocle sul progetto di cura.     

Il testo, impegnativo ma piacevole, costituisce un prezioso strumento di aggiornamento per chiunque operi nel campo della salute mentale. Grazie alla ricchezza di riferimenti culturali e alla chiarezza espositiva è però una lettura adatta anche al profano, che verrà facilmente contagiato dalla passione degli autori per la loro materia. 

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