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Pericolose metafore

Zanzare tigre, nutrie, scoiattoli grigi: esempi familiari di quelle che in ecologia vengono sempre più spesso chiamate “specie invasive”. Un fenomeno in aumento, addebitabile in buona parte all’attività umana, che solleva preoccupate attenzioni tra molti scienziati. L’introduzione di specie “estranee” in un ecosistema crea squilibri e può arrivare a minacciare la biodiversità: avvantaggiate dall’assenza dei loro usuali predatori (o “nemici naturali”, com’è invalso denominarli in ecologia), soppiantano le specie autoctone. Associazioni internazionali come l’Invasive Species Specialist Group, nata sotto l’egida della World Conservation Union, hanno come obiettivo la lotta radicale alla diffusione di queste specie. Nelle newsletter del gruppo si possono perfino leggere considerazioni sulla necessità di “inculcare nell’uomo comune un senso di “odio” contro queste specie”. Una strategia condivisibile? Non secondo Manfred Laubichler e Matthew Chew, storici della biologia dell’Arizona State University, che in un articolo pubblicato nelle scorse settimane su Science hanno sollevato il problema dell’uso delle metafore in ecologia. Secondo i due ricercatori, in particolare è l’espressione “nemico naturale” che distorce la comprensione delle dinamiche naturali. Estrapolate dal contesto in cui ha origine il loro significato, le metafore possono creare una visione della natura che addirittura cozza con i principi della biologia. “Non siamo semplicemente di fronte ad un esempio lampante di evoluzione all’opera, quando una specie “invasiva” compete, soppiantandola, con una specie “autoctona”? Non è questa competizione a portare all’adattamento?”.

Laubichler e Chew si dicono perfettamente consci dell’uso inevitabile e sempre più massiccio che la scienza deve fare delle metafore, ma invitano gli scienziati a farne un uso più critico e accorto. “Nella nostra analisi degli articoli usciti su Nature e Science”, spiega Laubichler “abbiamo rilevato un uso frequente del termine “nemici naturali”, e in almeno il trenta per cento dei casi non vi era spiegazione alcuna del significato dell’espressione”. Nella letteratura ecologica “nemico naturale” riassume l’ampio e diversificato numero di relazioni che va dalla predazione all’alimentazione vegetale, dal parassitismo all’infezione patogena. “Ma non si capisce quale contributo tecnico la metafora possa dare ai dibattiti in ambito ecologico”, continua Laubichler, “se non come semplificazione per “far passare il messaggio”. Penso che gli scienziati dovrebbero fare uno sforzo in più. Quello che ci preoccupa in modo particolare è l’uso così frequente di metafore bellicose in un momento storico come quello che stiamo vivendo, e la facilità con la quale si demonizzano piante, animali e magari esseri umani “invasivi”, esibendo l’etichetta di scientificità”.

“Il richiamo di Laubichler e Chew è senz’altro degno di nota”, commenta Elena Gagliasso, docente di filosofia della scienza alla Sapienza di Roma. “Va detto però che le metafore hanno una autonomia in gran parte non pilotabile. Negli ultimi decenni si è molto riflettuto sul ruolo delle metafore nella scienza. Se ne è capito così l’importanza nella generazione delle teorie: alcuni termini teorici si propagano indipendentemente dalla volontà di chi li introduce, e acquisiscono una consistenza che li rende difficilmente emarginabili”. Una dinamica, questa, che caratterizza anche le scienze esatte. E nel caso dell’ecologia? “Qui l’uso frequente di metafore è un problema nella misura in cui l’ecologia è una scienza ‘calda’ in un doppio senso: per la sua recente costituzione e perché si trova quotidianamente sotto i riflettori. La salvaguardia delle specie in pericolo, e la correlata questione delle specie ‘invasive’, è una questione complessa, che andrebbe valutata caso per caso. A mio parere l’azione peggiore e più devastante rimane quella legata all’uso dell’ingegneria genetica, con i problemi di inquinamento genetico dei campi ogm”.

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