Piccola Lucy

Località Dikika in Etiopia, tre anni di campagne di scavo, dal 2000 al 2003: vengono fuori buona parte del cranio, la mandibola completa di denti, parte del cinto scapolare, la colonna vertebrale, le costole, parte del braccio compresa la mano, le gambe e il piede sinistro. Poi ci sono voluti altri cinque anni per pulire il fossile ed effettuare le analisi: è una femmina (probabilmente) e ha 3,3 milioni di anni. Soprattutto, è il fossile di Australopitecus afarensis più giovane che sia stato scoperto.

Reperti come questo non si trovano tutti i giorni e permettono di cominciare a fare un po’ di luce su questioni che fino ad ora non potevano essere neanche dibattute. La descrizione dello scheletro secondo le prime analisi è apparsa il 21 settembre sulla rivista Nature. La straordinarietà della scoperta sta nell’età del fossile, che lo rende il bambino più antico di cui la paleontologia umana disponga, ma anche il fatto che con i suoi soli tre anni di età e per la sua completezza, fornisce fondamentali informazioni sullo sviluppo (ontogenesi) sia del cranio che dello scheletro e sull’evoluzione cerebrale di questi ominidi.

Per stabilire l’età di un individuo fossile ci si basa su diversi parametri, in particolare sull’eruzione dei denti, per quelli più giovani, o sul consumo dello smalto. “Con reperti non completamente adulti è più facile, perché è sufficiente considerare la sequenza di eruzione dei denti e la fusione delle ossa lunghe”, spiega Emiliano Bruner dell’Istituto Italiano di Antropologia, presso l’Università La Sapienza di Roma. “Per questo fossile è stato appunto utilizzato il primo metodo, grazie alla tomografia computerizzata che permette di identificare nella mascella i denti non ancora fuoriusciti. Ovviamente bisogna utilizzare degli standard, e in questo caso per la stima dell’età, come anche per la stima del sesso, basata sull’espressione di alcuni tratti morfologici, sono stati utilizzati i modelli conosciuti per le grandi scimmie africane, gorilla e scimpanzé. È una estrapolazione, ma non ci sono metodi alternativi”.

Il sedimento ha restituito anche il calco naturale del cervello, e tra le parti più importanti ritrovate vi è l’osso ioide, una struttura particolarmente fragile, che si rinviene raramente, connessa con la vocalizzazione nelle grandi scimmie e con il linguaggio negli esseri umani. “La presenza dell’osso ioide permette di formulare ipotesi sulle loro capacità di vocalizzazione, e quindi di conseguenza sulla loro eventuale struttura sociale”, continua Bruner. Il fossile, però, fa luce prima di tutto sul tipo di locomozione di questi ominidi. “Gli australopiteci avevano arti inferiori adatti alla locomozione bipede, ma arti superiori utili per muoversi sugli alberi, con braccia lunghe e falangi ricurve. Il fossile di Dikika conferma questa organizzazione degli arti. Sappiamo inoltre che il loro orecchio interno, che regola l’equilibrio, era simile a quelle delle scimmie antropomorfe africane, e che il loro polso permetteva un’andatura inclinata come quella di scimpanzé e gorilla”.

La “bambina di Dikika” è stata trovata dall’autore dello studio, Zeresenay Alemseged del Max-Planck-Institut per l’antropologia evoluzionistica di Lipsia (Germania) e direttore del Dikika Research Project, dopo circa trent’anni dal ritrovamento di Lucy, probabilmente il fossile di ominide più famoso, anch’esso Australopitecus afarensis. La scoperta di Lucy ad opera dell’antropologo Donald Johanson, era infatti avvenuta nel 1974: si trattava di uno dei primi afarensis ad essere trovato ed è tutt’ora tra i più completi: si tratta di una femmina adulta risalente a circa 3, 18 milioni di anni fa. Ora i due fossili potranno essere comparati ed è da questo confronto che emergeranno altre informazioni sull’ontogenesi e sulle caratteristiche della specie.

“Questo piccolo afarensis, in realtà, non ci dice quasi nulla di nuovo”, conclude Bruner, “ma la sua completezza e la sua giovane età ci confermano molte ipotesi per ora solo accennate a causa delle evidenze troppo frammentarie”.

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