Primo flop dell’Accordo di Copenhagen

Il primo impegno fissato dall’“Accordo di Copenhagen”, il documento uscito dal vertice sul clima delle Nazioni Unite, è stato un mezzo fiasco. Entro il 31 gennaio, i paesi che avevano partecipato al summit avrebbero dovuto presentare i propri impegni – in ogni caso non vincolanti – per la riduzione delle emissioni dei gas serra entro il 2020. Ma soltanto 55 stati hanno rispettato la scadenza e nessuno ha giocato al rialzo. Anzi, in alcuni casi gli impegni sono più deboli rispetto a quanto preannunciato alla vigilia della conferenza (vedi Galileo). Che quindi non sembra essere servita a granché.

I programmi di riduzione arrivano dai grandi paesi sviluppati o in via di sviluppo, complessivamente responsabili di tre quarti delle emissioni mondiali. Pochi degli stati più piccoli e vulnerabili si sono invece presentati all’appello. I 55 paesi includono gli stati membri dell’Unione europea, Usa, Giappone e le quattro nazioni più problematiche: Brasile, Cina, India e Sud Africa.

Ecco qualche numero. Gli Usa hanno sostituito il loro taglio del 17 per cento rispetto ai livelli del 2005 (corrispondenti al 3 per cento rispetto al 1990, anno di riferimento per il Protocollo di Kyoto) con una perifrasi in cui ci si riferisce a un taglio “dell’ordine del 17 per cento”, ritardando il momento in cui sarà fissato il target reale. Il Canada si è conformato completamente agli Usa, ponendo il punto interrogativo anche sul suo 17 per cento. Australia, Eu e Norvegia si tengono sul limite inferiore del range prospettato. Nel caso dell’Unione si parla quindi del 20 per cento invece che del 30; dal canto suo, la Nuova Zelanda fa sapere che non parlerà di alcun taglio in assenza di un obiettivo globale. Tra i paesi in via di sviluppo, la Cina riafferma il suo obiettivo del 40-45 per cento.

Per i “ritardatari”, il segretario per il cambiamento climatico dell’Onu sottolinea che il termine del 31 gennaio è “flessibile” e spera che la pubblicazione della lista di chi ha già presentato i propri piani serva come stimolo.

In ogni caso, per Niklas Hoehne, direttore delle politiche climatiche presso la società di consulenza Ecofys, e Bernhard Obermayr a capo della campagna di Greenpeace su energia e clima, la maggior parte degli impegni dei paesi industrializzati sono assolutamente inadeguati. Questi sforzi non sono sufficienti, secondo i modelli climatici attuali, a contenere un aumento della temperatura al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai valori pre-industriali. Tanto Ecofys quanto Greenpeace stimano che se i tagli saranno quelli presentati il 31 gennaio, l’aumento delle temperature nei prossimi decenni sarà compreso tra i 3 e i 3,5 gradi (le possibili conseguenze sono analizzate nel rapporto “Il terzo grado” della ong).

Gli obiettivi proposti, infatti, portano a una riduzione delle emissioni dei paesi industrializzati dall’11 al 19 per cento rispetto ai valori del 1990 – scrive Greenpeace -, quando per contenere la temperatura sotto i 2 gradi è necessario ridurre le emissioni del 40 per cento. Parallelamente dovrebbero essere investiti 140 miliardi di dollari l’anno per consentire ai paesi in via di sviluppo di passare a tecnologie verdi. (t.m.)

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