Qualche apertura, molte chiusure

Il lungo e carismatico pontificato di Karol Wojtyla non ha coinciso solo con grandi trasformazioni politiche, ma anche con una stagione di straordinaria crescita scientifica e tecnologica nel settore delle scienze della vita. Come forse nessun altro pontefice in precedenza, Giovanni Paolo II si è dovuto confrontare con la medicina e la biologia. Su grandi temi di storia e filosofia della scienza, Giovanni Paolo II ha spostato, seppur di poco, le posizioni mantenute per secoli dalla Chiesa. Qui, forse più della celebrata rivalutazione di Galileo, vale la pena di ricordare l’atteggiamento verso Darwin e l’evoluzione: in una comunicazione all’Accademia Pontifica delle Scienze del 23 ottobre 1996, Giovanni Paolo II metteva per iscritto che “nuove conoscenze conducono a non considerare più la teoria dell’evoluzione una mera ipotesi”; una concessione minima, sopravvalutata dai media all’epoca. Ma che bastò ad attirare a Wojtyla, proprio lui, gli strali di buona parte del movimento creazionista: movimento, vale la pena di ricordarlo, sviluppatosi essenzialmente nel mondo del cristianesimo evangelico e protestante. In compenso, Giovanni Paolo II ha mostrato rigida intransigenza sulla possibilità di rinnovare i precetti cattolici in modo da ricomprendere in essi le conquiste della medicina, e avvicinarli a scelte quotidiane accettate e praticate prima di tutto dalla maggioranza dei fedeli. In particolare, su tutto quanto riguarda la sfera sessuale e riproduttiva. Si veda, prima di tutto, il problema del controllo delle nascite. La riflessione su questo tema era iniziata nella Chiesa Cattolica durante il Pontificato di Paolo VI, che lo affrontò nell’enciclica Humane Vitae del 1968. In quel documento Papa Montini scriveva a chiare lettere il “no” della Chiesa ai metodi artificiali di contraccezione. Eppure, riconosceva l’esistenza e la rilevanza del problema della sovrappopolazione, che costituiva il motivo stesso della scrittura dell’enciclica, e ammetteva l’utilizzo di forme di controllo delle nascite “naturali” (basate sulla conoscenza del ciclo di fertilità) per allineare il numero di nuovi nati alle reali possibilità di sostentamento a disposizione. Se si confronta quell’enciclica con la “Evangelium Vitae” del 1995, quella in cui Giovanni Paolo II affronta di petto i temi dell’aborto, della contraccezione e dell’eutanasia, la sostanza dei precetti non cambia, ma è evidente un atteggiamento di maggiore chiusura. L’argomento della sovrappopolazione (definito “fenomeno”, quindi transitorio e più apparente che reale; Montini lo riconosceva invece come un “pericolo”) è relegato nelle pieghe dell’enciclica e trattato come una delle giustificazioni addotte in favore di politiche “contro la vita”; ma Wojtyla lo ribalta, richiamando alla necessità di intervenire con politiche economiche e sociali per garantire a tutti i nati condizioni di vita decenti, piuttosto che di mantenere la popolazione entro limiti sostenibili per le condizioni attuali. Quanto all’atteggiamento verso le conquiste della biomedicina, quasi trenta anni prima Paolo VI apriva la sua enciclica parlando di “progressi stupendi nel dominio e nell’organizzazione razionale delle forze della natura, così che [l’uomo] si sforza di estendere questo dominio al suo stesso essere globale; al corpo, alla vita psichica, alla vita sociale, e perfino alle leggi che regolano la trasmissione della vita”. Si confronti il tono di queste parole, pur cauto, con quelle che compaiono nelle prime pagine dell’enciclica di Giovanni Paolo II. “Con le nuove prospettive aperte dal progresso scientifico e tecnologico nascono nuove forme di attentati alla dignità dell’essere umano, mentre si delinea e consolida una nuova situazione culturale, che dà ai delitti contro la vita un aspetto inedito e — se possibile — ancora più iniquo suscitando ulteriori gravi preoccupazioni”. La chiusura di Giovanni Paolo II sul tema della contraccezione appare più problematica di quella di Paolo VI, anche e soprattutto perché durante il suo pontificato a questo tema si è legata un’altra emergenza, oltre a quella demografica: l’Aids. È su questo terreno che l’intransigenza di Wojtyla ha prodotto gli scontri più duri con il mondo scientifico, come ricordato anche da un severo editoriale di Lancet pubblicato durante gli ultimi giorni di vita del pontefice. Wojtyla ha ripetutamente, e contro il parere di molta parte della stessa Chiesa africana, ribadito la condanna di qualunque politica che incoraggiasse l’uso del preservativo in Africa per contenere la diffusione dell’Aids: castità per controllare il virus, e diffusione di farmaci a basso costo per curare i malati, sono le uniche misure ammesse dal suo pontificato contro una malattia che uccide milioni di persone all’anno e che rappresenta oggi forse il principale ostacolo allo sviluppo del continente africano. Una serie di perentori “no” è venuto poi su aborto ed eutanasia, anche nelle situazioni più estreme. Alla fine degli anni ‘90, Wojtyla ha imposto alla Chiesa tedesca di uscire dai consultori pubblici per non essere in qualche modo complice involontaria delle donne che volevano abortire. Il 28 febbraio 1993 fece un appello perché le donne bosniache, violentate dai serbi durante la feroce ‘’pulizia etnica’’, fossero aiutate a non abortire, e nell’aprile del 1999 si oppose alla distribuzione della ‘’pillola del giorno dopo’’ tra le donne stuprate del Kosovo da parte delle forze Onu. Il Papa polacco ha poi più volte ribadito il suo no alla clonazione umana. Riproduttiva (e qui, almeno, era in buona compagnia anche tra i laici), ma anche terapeutica. Pur affascinato dalle possibilità della scienza medica, Wojtyla ha quindi fatto prevalere, nel suo pontificato, la preoccupazione che essa diventasse strumento di una generalizzata (sono ancora le parole della Evangelium vitae) “minaccia alla vita”.

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