Categorie: Società

Quando la marca è mondiale

Vanni Codeluppi
Il potere della marca
Bollati Boringhieri, 2001
pp. 143, £18.000

La forza del simbolo, le capacità ammaliatrici della marca, il potere comunicativo della pubblicità, oggi questi messaggi raggiungono con la stessa forma tutti gli uomini, indifferentemente dal contesto culturale e sociale in cui vivono. È a questi temi fa riferimento il titolo del saggio di Vanni Codeluppi, professore di Sociologia dei consumi presso le sedi di Milano e Feltre dell’Università IULM. Attraverso un’analisi lucida e un testo semplice, ma non semplicistico, l’autore espone il funzionamento dei meccanismi di marketing che hanno portato alcune tra le maggiori multinazionali a essere presenti in tutti gli angoli del pianeta, importando insieme al prodotto anche l’ideologia alla base di questi meccanismi: il consumo. Non è infatti un caso che egli individui la nascita di questa ideologia in anni recenti soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino e i fatti di Piazza Tienammen, eventi storici che hanno aperto mercati fino ad allora chiusi. Ma anche dopo la Guerra del Golfo che ha invece evidenziato e ampliato il potere della comunicazione televisiva. Per tutti gli anni Novanta i mercati non hanno fatto altro che estendersi, raggiungendo Paesi e status che prima era difficile toccare: “Il mercato ha sostituito lo Stato come forza regolatrice della nostra società” (p.18). Attraverso la marca, divenuta nel frattempo lo strumento ideologico delle multinazionali, si è andata costituendo “una comunità transnazionale di consumatori che condividono le stesse abitudini e le stesse pratiche culturali” (p.33). Quindi, sostiene l’autore, si è innescato un meccanismo di azione-reazione nel quale Paesi e culture che si trovano al di fuori del “mondo occidentale” hanno “la necessità vitale di esprimere e valorizzare le proprie diversità” (p.35). Basti pensare ai Paesi Arabi dove l’introduzione dei Centri Commerciali ha contribuito a sconvolgere quella distinzione che esisteva tra spazio pubblico e privato. Frequentandoli, i giovani hanno la possibilità di instaurare relazioni sociali tra i due sessi fino a pochi anni fa impensata.

“McDonald’s, Disney, Nike e le altre”, come recita il sottotitolo del volume, sono grandi corporation con sede negli Stati Uniti, da lì è partita una rivoluzione che ha stravolto i modi di mangiare, vestire, comunicare e divertirsi di milioni di uomini. Su questo tema e sull’opposizione a questo sistema ideologico da parte di alcune culture più conservatrici, ci sono forse gli spunti più attuali di Codeluppi. Infatti, interagendo con queste società così diverse da quella americana, la “Rivoluzione dei consumi” è riuscita a trasformarle snaturando abitudini secolari. Egli procede poi affermando che a un certo punto della loro storia le grandi marche si sono scisse dai riferimenti al proprio prodotto. Sono i casi della Swatch che non produce più solo orologi, della Disney la quale fa dei propri film la migliore campagna pubblicitaria per i propri parchi divertimento. Oppure la Virgin che mantiene i propri interessi in numerosi e molteplici settori dalle bibite al turismo, senza dimenticarci di Nike che ormai non reclamizza neanche più un solo paio di scarpe ma esclusivamente il suo famosissimo “baffo”. E che dire di McDonald’s? Il signor Ronald McDonald’s (la mascotte della ditta, ndr) che pur non essendo un maestro di arte culinaria vede entrare ogni giorno nei propri fast-food milioni di persone che in tutto il mondo devono mangiare le stesse cose. Per Codeluppi le grandi marche sono diventate sempre di più autoreferenziali ed esportatrici aggressive dell’american way of life. Un tipo di atteggiamento che produce un’acculturazione che l’autore non ha problema a definire violenta nel momento in cui viene a “innestarsi su una infrastruttura industriale debole non accompagnata da una adeguata espansione economica” (p.36). E la domanda alla quale giunge resta inquietante e senza risposta: “Dietro l’alibi del progresso economico e della modernizzazione culturale, si sta forse profilando una nuova forma di colonialismo più subdola e strisciante perché veicolata attraverso le armi seducenti del consumo, della pubblicità e delle marche?” (p.36).

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