Quando la medicina è spaziale

Baikonur (Kazakistan), 25 aprile 2002, 8 e 26 ora italiana. Il veicolo Soyuz è partito alla volta della Stazione Spaziale Internazionale. A bordo, insieme al comandante russo Yuri Ghidzenko e al turista australiano Mark Shuttleworth (23 milioni di euro per la vacanza), c’è l’astronauta italiano Roberto Vittori, nostro secondo connazionale, dopo Umberto Guidoni, a mettere piede sulla Stazione. Il viaggio durerà dieci giorni e il suo scopo è quello di effettuare quattro test scientifici, tre dei quali italiani: due a carattere medico e uno per sperimentare una nuova tuta spaziale. Tra gli aspetti interessanti della missione “Marco Polo” inoltre quello di studiare le reazioni dell’organismo umano lontano dal nostro pianeta. Come nel caso dell’invecchiamento precoce: “L’assenza di peso, la condizione di microgravità, fa sì che i muscoli e le ossa non vengano sollecitati come sulla Terra, al ritorno l’astronauta quindi ha un fisico provato e ha delle notevoli difficoltà a camminare”, spiega Filippo Ongaro, medico del Centro astronautico dell’Agenzia Spaziale Europea di Colonia che segue l’astronauta italiano.

E proprio la missione di Vittori assume un’importanza particolare dal punto di vista medico grazie all’utilizzo di una pedana che sfrutta le vibrazioni elettromeccaniche. “La tecnologia si chiama “whole body vibration” e consente al paziente di riprendere il tono muscolare e la consistenza delle ossa in poco tempo”, va avanti Ongaro. Le ricerche condotte finora indicano che a fare la differenza è la dose di vibrazioni a cui viene sottoposto l’organismo. Per questo il corpo di Vittori è stato monitorato in fase preventiva, cioè prima dal lancio, per analizzare i valori propri di un singolo individuo. “Gli italiani, con lo studio di Carmelo Bosco dell’Università di Tor Vergata a Roma, sono stati i primi a mettere in evidenza che non basta somministrare le vibrazioni ma bisogna studiare la risposta elettrica dei muscoli di un organismo. Per ognuno può essere trovata la frequenza di allenamento, misurata in hertz, ottimale”, aggiunge il medico. Al suo ritorno l’astronauta italiano sarà quindi sottoposto a una riabilitazione ad hoc, la prima mai eseguita, che consentirà di capire in quanto tempo l’organismo riprende i valori di normalità. Il macchinario e la tecnologia testati su Vittori potrebbero essere commercializzati in un prossimo futuro anche nella terapia della riabilitazione per infortunati, per chi ha dovuto trascorrere lunghi periodi a letto e per quanti vogliano rallentare il rilassamento precoce del tono muscolare o l’eccessiva porosità delle ossa.

Ma un astronauta deve essere pronto ad affrontare anche altri disturbi di non poco conto. “Prima di tutto quelli di orientamento”, dice lo stesso Vittori. “In microgravità l’organismo non ha riferimenti e le sensazioni che si hanno non vengono confermate, c’è uno sfasamento. Una sensazione che può durare al massimo tre giorni ma che mi sono allenato a controllare. Inoltre, in assenza di gravità, il sangue tende a salire verso la testa”. Per ovviare a questo inconveniente l’astronauta italiano ha provato già a terra delle speciali fasce che stringono la parte alta della coscia.

La navicella che ospita gli astronauti non si può certo definire un ambiente ospitale. Oltre all’esiguità dello spazio disponibile per ognuno bisogna fare i conti con le radiazioni cosmiche. “Le navicelle spaziali viaggiano fuori dal mantello protettivo dell’atmosfera terrestre e sono quindi esposte alle radiazioni cosmiche”, spiega Aristide Scano, presidente dell’Associazione Italiana di Medicina Aeronautica e Spaziale che dal 22 al 24 maggio prossimi riunirà i massimi esperti del settore al cinquantenario celebrato con un convegno nazionale. Per ora nessuno studio ha evidenziato variazioni somatiche né genetiche negli astronauti ma “la casistica è limitata ed è ancora troppo presto per poter vedere effetti di questo genere”, va avanti il decano della medicina spaziale italiana. Il problema comunque è uno dei principali da risolvere per rendere realtà la prospettiva di vivere nello Spazio: le radiazioni cosmiche infatti causano mutazioni del Dna che possono essere alla base dell’insorgere di tumori. Proprio per agire contro queste mutazioni la Nasa ha messo a punto una capsula microscopica capace di individuare il Dna danneggiato e di ripararlo oppure di indurre la cellula mutata al suicidio, innescando il meccanismo detto apoptosi. Un apparecchio che in futuro potrebbe essere utilizzato anche a Terra.

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