#Restoacasa, la lezione dell’influenza spagnola del 1918

Influenza spagnola

1918. Il mondo sta per uscire dalla Grande Guerra per entrare in un altro incubo, se possibile ancora più drammatico. L’influenza spagnola: una terribile pandemia che, nel complesso, infetterà quasi mezzo miliardo di persone e provocherà cinquanta milioni di morti. Spostiamoci a Philadelphia, il 28 settembre di quell’annus horribilis. Duecentomila persone si accalcano in strada per salutare i soldati in partenza per il fronte. Si rivelerà una pessima idea: tre giorni dopo, tutti i 31 ospedali della metropoli statunitense saranno presi d’assalto da pazienti con gravi sintomi influenzali. Di tutta fretta, le autorità si bloccano qualsiasi movimento in città, ma è ormai troppo tardi: entro la fine della settimana si conteranno circa 4500 morti.

La spagnola a St.Louis

Tutt’altra storia a St. Louis, a poco più di mille chilometri di distanza: appena cominciano a circolare le notizie dei primi contagi, le autorità chiudono scuole, librerie, chiese, tribunali. Limitano il trasporto urbano e proibiscono gli assembramenti di oltre 20 persone. Risultato: il numero di morti per influenza, aggiustato per la popolazione totale, sarà meno della metà di quello registrato a Philadelphia. È vero: è successo un secolo fa, quando il bagaglio della medicina era molto più ridotto rispetto a quello di oggi. Ma la sostanza non cambia: anche nel 2020 il mezzo migliore per arginare una pandemia resta il distanziamento sociale. Ovvero: evitare il più possibile di stare gli uni vicini agli altri. Ovvero, in parole ancora più dirette: restare a casa. E non muoversi se non per assoluta necessità. Non solo: la misura è tanto più efficace quanto prima viene adottata, come ha recentemente ricordato la rivista Quartz, tracciando per l’appunto le analogie tra la pandemia da Covid19 e l’influenza spagnola. Ecco un grafico che vale più di mille parole:

Morti per influenza spagnola ogni 100mila persone a St. Louis (curva tratteggiata) e Philadelphia (curva continua). Grafico: Proceedings of the National Academy of Sciences.

…e che è sinistramente simile a un grafico relativo ai pericoli che corriamo oggi:

Flattening the curve: rallentare i contagi

Lo scopo del distanziamento sociale è evidente, e semplice da capire: flattening the curve, per dirlo come piace agli anglofoni, ovvero appiattire la curva. Perché una volta che un vettore epidemico si diffonde, e non c’è più nulla da fare per contenerlo, l’unica strategia possibile è di rallentarne il più possibile il contagio, per evitare di sovraccaricare i sistemi sanitari e dare più tempo possibile alla ricerca per sviluppare le contromisure. Sembra ovvio, ma non lo è forse tanto.

Lo ha spiegato Richard Hatchett, l’esperto a capo della Coalition for Epidemic Preparedness Innovation che ha studiato i casi di Philadelphia e St. Louis. “Il distanziamento sociale”, dice, “non è sempre stato tenuto in opportuna considerazione: è accaduto per esempio durante le pandemie di influenza del 1957 e del 1968”.  E soltanto nell’ultimo decennio gli Us Centers for Disease Control and Prevention hanno ufficialmente incorporato il distanziamento tra le linee guida per la gestione di un’emergenza sanitaria di questo tipo.

Agire per tempo

Hatchett, inoltre, sottolinea ancora una volta l’importanza del tempismo: “Penso che la lezione più importante che ci viene dai modelli matematici e dalla storia sia il fatto che i benefici degli interventi sono tanto più grandi quanto prima vengono attuati e mantenuti – meglio se si agisce prima che l’1% della popolazione sia infetto”. Le misure di distanziamento, chiaramente, perdono di efficacia quando l’epidemia si è già diffusa alla maggior parte della popolazione: speriamo di non aver agito troppo tardi. Nel frattempo, non ci resta altro da fare che restare a casa.

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