Ricercatori o missionari?

Per un ricercatore italiano, probabilmente, c’è di che provare invidia. Catherine Cesarsky, direttore generale dell’European Southern Observatory (Eso) di Monaco, dichiara su Nature di guadagnare “solo” 90 mila dollari l’anno (180 milioni di lire). Ma Cesarsky non lavora per soldi, bensì per passione. I soldi non saranno tutto, ma quando mancano, anche la passione vacilla.

Ne sanno qualcosa gli scienziati di casa nostra dove, purtroppo, gli stipendi non sono altrettanto incoraggianti. Un ricercatore percepisce dai due ai tre milioni mensili, mentre all’estero la paga si aggira sui 4 mila dollari al mese (circa otto milioni). Il divario si fa ancora più vistoso per le cariche direttive. Un direttore di istituto nel settore pubblico non arriva ai dieci milioni mensili, contro i venti-trenta milioni dei suoi colleghi all’estero. Nel settore privato, invece, lo stipendio di un dirigente di un centro di ricerca si avvicina allo standard americano, ma può anche superarlo, a seconda del prestigio della struttura in cui lavora.

All’estero, inoltre, ricerca e management scientifico non sono opzioni inconciliabili. Thomas Cech, premio Nobel per la chimica e attualmente presidente dello Howard Hughes Medical Institute (Hhmi), non ha voluto rinunciare, nonostante gli impegni, al suo gruppo di ricerca alla University of Colorado: “Quando si occupano incarichi direzionali, bisogna comunque mantenere un punto di contatto con ciò che accade nei laboratori, alla base della piramide”.

Non può dire altrettanto Edoardo Boncinelli, direttore del laboratorio di biologia molecolare del San Raffaele di Milano: “Da quando mi hanno affidato questa carica sono sommerso di scartoffie; passo le mie giornate a tentare di dirimere pratiche burocratiche per l’affidamento dei fondi e sono ormai cinque anni che non trovo il tempo per lavorare al microscopio”. E sicuramente il suo stipendio non farebbe gola a Cech.

Statistiche alla mano, le informazioni riportate da Mario De Marchi – “Il sistema scientifico pubblico in Italia” (Franco Angeli, 1998) – sono allarmanti. Il recente progetto “European Comparison of Public Research System”, che mette a confronto gli standard nella ricerca pubblica dei vari paesi europei, mostra infatti tutte le mancanze del sistema italiano rispetto alle altre nazioni.

In Italia le persone impiegate nella ricerca scientifica pubblica sono ben poche e il loro numero tende a rimanere stazionario, anche perché le assunzioni nei centri di ricerca pubblici sono state fortemente ridotte dal 1980 e il passaggio di risorse umane dal pubblico al privato è praticamente inesistente. Inoltre il rapporto tra il totale dei laureati in materie scientifiche e la popolazione giovane compresa tra i 25 e i 35 anni è abbastanza basso. In Italia si laureano in materie scientifiche l’uno per cento dei giovani, a fronte del 9 per cento in Giappone e Inghilterra e del 6 per cento in Germania e Usa.

Visto che le possibilità di inserimento professionale sono veramente limitate, ai giovani rimangono ben pochi incentivi. “Le posizioni sono quasi tutte consolidate e manca un ragionevole turn over, poiché i progetti di ricerca sono tutti a lunga scadenza e ognuno si tiene ben stretto il proprio posto”, commenta Decio Ripandelli, direttore amministrativo dell’Icgeb (Centro internazionale per l’ingegneria genetica e le biotecnologie di Trieste). “Ma”, aggiunge “forse si intravede un futuro nelle biotecnologie che, sostanzialmente, ricevono più finanziamenti delle scienze pure”. E i dati statistici del Cnr gli danno ragione, visto che i finanziamenti alla ricerca sulle biotecnologie sono aumentati negli ultimi anni del 15 per cento.

Anche l’impiego di ricercatori o dottorandi come docenti ausiliari (ma con stipendio ridotto), si rivela un boomerang: da un lato rappresenta un vero e proprio sfruttamento e dall’altro impedisce la formazione di nuovi sbocchi lavorativi. Da un’indagine dell’Istituto statistico del Cnr risulta che il 34 per cento del personale che svolge attività didattica è costituito da dottorandi, in attesa di un concorso che non arriverà mai. I contratti di ricerca danno adito a forme di precariato lavorativo che tendono a stabilizzarsi solo dopo molto tempo, quando il ricercatore stesso ha raggiunto un’età avanzata e il periodo più prolifico della sua attività è verso la fine. Ciò comporta inevitabilmente l’immobilismo professionale.

E in ambito scientifico, dove la mobilità, il ricambio e la circolazione continua delle idee è essenziale, tutto questo è ancor più grave. Lavorare anni e anni sempre a uno stesso progetto e sotto la direzione altrui può risultare veramente alienante se non si hanno sufficienti motivazioni e incentivi. Secondo Chris Llewellyn Smith, attualmente presidente dello University College London (Ucl) e prima ancora direttore generale del Cern di Ginevra, “è veramente difficile in questo campo, per un giovane ricercatore, portare avanti le proprie idee in modo autonomo. Bisogna pertanto trovare dei modi di compensazione, come ad esempio l’opportunità di passare da un’area all’altra della ricerca”.

Ma i consigli di Smith, in Italia, sarebbero difficili da mettere in pratica. Se è già un’impresa trovare un lavoro, cambiarlo è quasi un lusso. Il sistema della ricerca è fortemente penalizzato dalla mancanza di concorsi periodici che assicurino la regolarità degli avanzamenti di livello. Ciò alimenta l’insoddisfazione professionale e la fuga all’estero. L’unico fattore di avanzamento certo è, almeno negli enti pubblici, l’anzianità. Uno studio condotto sulle carriere dei ricercatori del Cnr mostra che l’80 per cento di quelli tra i 36 e i 40 anni non ha mai ottenuto un avanzamento di grado. Il 51 per cento dei ricercatori di età superiore ai 50 anni può contare al massimo su due avanzamenti di grado.

Sveva Avveduto, primo ricercatore dell’Istituto degli studi sulla ricerca e sulla documentazione scientifica del Cnr, e autrice del saggio “La mobilità delle intelligenze in Europa” (FrancoAngeli 1998), parla di “un momento di stagnazione nelle nuove assunzioni per via della trafila burocratica”. Tuttavia le prospettive per il futuro sono più promettenti, perché la riforma del Cnr, prevista dal Decreto legislativo n°19 del 30 gennaio 1999, propone nuovi contratti quadriennali per i giovani ricercatori. “Il decreto dovrebbe diventare operante verso la seconda metà del 2000”, precisa Avveduto.

Se questa è la realtà del settore pubblico, più rassicurante è la situazione del settore privato. Ivan Cavicchi, presidente di Farmindustria e docente di Sociologia sanitaria all’Università di Roma “La Sapienza”, parla di “opportunità di inserimento professionale molto buone, soprattutto per le figure ad alta qualificazione, poiché almeno il settore della ricerca farmaceutica investe molto nella sperimentazione e nelle nuove tecnologie”. Anche il settore privato tuttavia ha subito qualche rallentamento, in ragione del fatto che dal 1990 si era adottata una politica anti-industriale che ha portato alla riduzione di 10 mila posti di lavoro. “Una tendenza che da due anni si è invertita”, puntualizza Cavicchi.

Ma il vero nodo rimane la mancanza di scambio tra l’impiego pubblico e quello privato. “All’estero il rapporto tra pubblico e privato è la regola”, sostiene Cavicchi, “mentre qui in Italia è ancora un’eccezione”. Con il nuovo statuto autonomistico delle università è stato possibile firmare degli accordi, ma “siamo comunque attardati rispetto agli altri paesi”. Decio Ripandelli sostiene che “la permeabilità tra il pubblico e il privato è piuttosto ridotta e, in genere, si tratta di matrimoni tra grandi entità che non corrispondono poi a un’effettiva mobilità dei singoli ricercatori”. Sveva Avveduto menziona “qualche tentativo negli ultimi due anni non molto incoraggiante”. Le statistiche parlano chiaro: il rapporto tra le spese per la ricerca e il prodotto interno lordo dell’industria è menomato. In Italia raggiunge appena lo 0,8 per cento a fronte del 2 per cento di Usa, Germania, Francia e Giappone. Il futuro, dunque, è ancora tutto da costruire.

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