La scienza secondo il fascismo

Negli anni del fascismo un’ondata di vitalità pervase la scienza italiana: in quel periodo videro la luce importanti istituti di ricerca ed enti che, come il Cnr (Centro Nazionale delle Ricerche), ancora oggi sono cardini degli studi scientifici nel nostro paese. Le pesanti costrizioni ideologiche però obbligarono gli scienziati ad indirizzare le loro ricerche in modo da compiacere i desideri del regime, anche se a volte solo in apparenza.

La scienza dopo l’Unità: centralizzare

“Per comprendere le vicissitudini attraversate dell’Italia nel periodo fascista e fino ai giorni nostri, occorre avere chiara la situazione nei decenni immediatamente precedenti”, spiega Roberto Maiocchi, professore di Storia della scienza all’Università Cattolica di Milano. “Fin dalla costituzione dello Stato italiano, infatti, si dovette affrontare il problema dell’esistenza di moltissimi piccoli centri universitari non coordinati fra loro e indipendenti l’uno dall’altro”. Queste istituzioni erano state motivo di gloria per ognuno degli staterelli in cui era divisa l’Italia, ma al momento dell’unificazione del paese il loro numero rappresentò un ostacolo per lo sviluppo scientifico. Così, i primi governi italiani cercarono di centralizzarle, ridimensionando e accorpando quelle considerate secondarie. Gli sforzi in buona parte fallirono, e da allora fino ad oggi il mondo della scienza italiana ha assistito a un costante aumento delle università e alla conseguente dispersione di forze e mezzi. Alla resa dei conti, l’unico segno delle intenzioni dei governi fu la costituzione di altri istituti, questa volta però centralizzati e direttamente dipendenti dal ministero dell’Industria agricola e del Commercio (che allora si occupava di questioni scientifiche).

Lo scienziato, un tecnico utile

Con la prima Guerra mondiale, in Italia come in tutta Europa dilagò un nazionalismo scientifico-tecnico. In quest’ottica venne totalmente rivisto il ruolo dello scienziato, il quale non doveva essere più volto alla ricerca del sapere universale, come era stato nell’800, ma piuttosto risultare utile al progresso del proprio paese. Dunque dalla scienza speculativa si passò abbastanza bruscamente a quella pratica. “Emblematico di questa mutamento di idee è il caso dell’Istituto di chimica farmaceutica di Napoli”, prosegue Maiocchi, “trasformato rapidamente in una fabbrica di proiettili a gas con più di 100 dipendenti”.

La concezione dello scienza come strumento utile allo sviluppo della nazione non venne abbandonata dopo la guerra e con il fascismo. Anzi, nel 1923 fu chiaramente espressa da Giovanni Gentile, allora ministro della Pubblica istruzione, il quale indicò agli scienziati quali erano, nell’ottica fascista, i loro doveri morali: avvicinare la scienza alla vita e, abbandonando gli studi troppo astratti, contribuire al benessere del paese. “In questo periodo sale al massimo grado la figura dello scienziato, come tecnico veramente utile alla nazione e artefice del suo progresso”, continua Maiocchi, “d’ora in avanti dunque tutte le ricerche approvate ufficialmente saranno necessariamente dotate di una sorta di ‘cappello ideologico’, che le farà apparire in armonia con le esigenze fasciste. D’altra parte ciò è quanto avveniva anche in ogni altro campo della vita italiana”.

La centralizzazione fascista

Dal punto di vista pratico il governo fascista decise di risolvere una volta per tutte l’annoso problema della frammentazione degli istituti di ricerca. E lo fece creando delle forti strutture centralizzate che coordinassero i piccoli istituti e ne indirizzassero gli studi. Videro così la luce tre importanti enti, l’Istat, l’Istituto Superiore di Sanità e il Cnr, ognuno con il suo obiettivo “fascistamente corretto” da perseguire.

L’Istituto di statistica

L’Istat venne inaugurato nel 1926 con il compito di monitorare, con indagini statistiche, la crescita e le condizioni della popolazione italiana. Tra i suoi fondatori vi era Corrado Gini, uno dei più noti esponenti della scuola demografica italiana dell’epoca. Quest’ultima era decisamente in controcorrente rispetto alle altre scuole europee, dove ci si poneva il problema di conciliare la crescita della popolazione con le risorse disponibili nel paese. In Italia, al contrario, i demografi spingevano verso la moltiplicazione della popolazione, e suggerivano apertamente l’India come modello cui aspirare (seppure con le necessarie modifiche al sistema di giustizia sociale). Questa convinzione, che poggiava su accurate ricerche scientifiche, si espresse al meglio della prosopopea fascista con la decisione di conferire medaglie d’oro alle famiglie numerose, e con altre iniziative folcloristiche.

L’Istituto Superiore di Sanità

Un secondo aspetto al quale il fascismo teneva molto era la salvaguardia della razza. Un concetto che negli anni a venire acquistò un significato terribile, ma che inizialmente aveva connotati positivi. Si trattava infatti di tutelare l’intero popolo italiano, conducendo campagne per la salute pubblica, combattendo la malaria e la denutrizione, migliorando la scolarizzazione e curando in particolare la salute delle madri e dei bambini. Forse nessuno dei medici coinvolti in queste opere immaginò che la difesa della razza si sarebbe paradossalmente trasformata nello sterminio di una parte della stessa popolazione italiana.

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La sede dell’Istituto supeririore di sanità a Roma.

L’ente preposto a occuparsi degli studi connessi con la salute pubblica fu l’Istituto Superiore di Sanità, inaugurato nel 1930. “Questo ente venne finanziato principalmente dalla fondazione Rockfeller, che stava conducendo iniziative di questo genere in tutta Europa”, dice Gilberto Corbellini, del Dipartimento di storia della medicina all’Università di Roma. In quel periodo, infatti, gli Stati Uniti conducevano una strategia di inserimento nella realtà europea, con un duplice obiettivo: quello di introdursi in un nuovo mercato, e di contrastare la possibile influenza sovietica. Più tardi la stessa fondazione Rockfeller si lamentò dell’uso non strettamente finalizzato alla salute che era stato fatto dall’Istituto. Negli anni ‘30 anche Enrico Fermi riuscì a ottenere un finanziamento di 300.000 lire per i suoi studi sull’atomo, concesso perché l’allora presidente dell’Iss riuscì a convincere Mussolini della notevole utilità medica degli studi sulla radioattività.

Il Consiglio Nazionale delle Ricerche

Il terzo e più ambizioso grande ente istituito dal fascismo fu il Cnr, con l’obiettivo di dirigere e coordinare l’intero mondo scientifico italiano. Un obiettivo, questo, mai raggiunto: l’ente entrò in piena attività solo nel 1930, con un comitato direttivo composto da professori universitari. Ne derivò un enorme clientelismo, e gli abbondanti fondi destinati al nuovo ente furono immediatamente divisi fra i vari componenti del comitato. Con episodi anche clamorosi, racconta ancora Maiocchi: “Un anno, ad esempio, un terzo dei fondi destinati alla chimica andò a un unico gruppo: quello che faceva capo al professore che era anche presidente del Cnr”.

Anche l’obiettivo di finanziare studi di immediata utilità pratica andò in parte deluso. Delle 110 ricerche approvate dal ‘29 al ‘34, soltanto undici ebbero questa caratteristica. Per quel che riguarda il ruolo di coordinamento, l’unica chiara direttiva promulgata fu quella di favorire l’autarchia, ovvero l’indipendenza tecnologica dell’Italia dall’estero, in vista di una possibile guerra. Questo ultimo scopo doveva essere perseguito anche attraverso ricerche con un possibile impiego bellico, cosa che in effetti il Cnr in parte fece. Paradossalmente però ciò avvenne nel totale disinteresse dell’esercito. Neppure il generale Badoglio, che fu contemporaneamente presidente dell’ente e capo delle forze armate, riuscì a mettere in contatto il mondo della scienza e quello militare.

Il dopoguerra, tra eredità fascista e disinteresse

“Lo studio di quanto avvenne nel mondo scientifico durante il fascismo ci illumina su molti eventi successivi”, dice Marcello De Cecco del dipartimento di economia pubblica dell’università di Roma e noto commentatore di politica economica, “in quell’epoca infatti vennero dati molti fondi alla scienza e, nonostante la gestione male accorta, si poterono condurre studi e creare nuove tecnologie. Di questa situazione l’Italia approfittò negli anni della ricostruzione, quando poté beneficiare di un vero e proprio miracolo economico costruito in realtà sulle conoscenze acquisite nei decenni precedenti.” Infatti, nel periodo immediatamente successivo alla caduta del fascismo ben poca attenzione fu riservata alla ricerca scientifica e tecnologica. Basti pensare che cinque anni dopo la fine della guerra al Cnr venivano conferiti un quinto dei fondi che l’ente aveva a disposizione nel ‘39.

“In effetti la situazione italiana presenta una grossa peculiarità”, spiega Luigi Capogrossi, dell’istituto di diritto romano all’università di Roma, “infatti in tutti gli altri paesi industrializzati europei si assiste a un irreversibile processo di potenziamento scientifico, inteso come strumento insostituibile di progresso. In Italia al contrario i governi susseguitisi dopo il periodo fascista sembrano mostrare un totale disinteresse alla scienza e ci vorranno anni prima che i finanziamenti dati agli enti tornino ad essere paragonabili a quelli assegnati sotto la dittatura”.

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