Scimpanzè, l’SOS di Jane Goodall

Non c’è tempo da perdere, in Africa gli scimpanzè stanno scomparendo a ritmi allarmanti e potrebbero estinguersi entro trent’anni. Ce la consegna così Jane Goodall, questa settimana su Nature, la sua amara riflessione dopo esattamente cinquant’anni di studi dedicati ai primati: nuda e cruda come forse mai prima aveva fatto.

Era il 1960 quando la giovane primatologa, capelli lunghi e pantaloncini corti, si sedette per la prima volta sul punto più panoramico della valle del Gombe Stream National Park in Tanzania, vicino al lago Tanganika, e puntò il binocolo su un gruppo di scimpanzè alle prese con le faccende della vita quotidiana. Da allora, dice la Goodall, molto è cambiato e purtroppo in peggio. Nel 1964 gli scimpanzè del Gombe Park erano 150, mentre ora sono solo un centinaio. E non va meglio se allarghiamo lo sguardo all’intero continente: nel 1900 ne circolavano per le foreste africane un milione, oggi se ne contano 300.000.

 Oltre al triste bilancio, però, sulle pagine della rivista inglese, la stessa che tenne a battesimo la carriera scientifica della primatologa nel 1964, c’è molto di più. C’è l’analisi delle cause e l’identificazione dei colpevoli, c’è la consapevolezza di nuove conoscenze frutto del progresso tecnologico (come quella che deriva dall’analisi delle sempre più precise immagini satellitari da cui impariamo, per esempio, che gli scimpanzè preferiscono cacciare nei boschi in cui le piante si rinnovano al cambio delle stagioni, piuttosto che nelle foreste sempre verdi). Ma, soprattutto, c’è una chiara indicazione dei rimedi che possiamo ancora adottare per fermare la catastrofe.

Così la Goodall ci parla della deforestazione su larga scala che ha trasformato il Gombe Park in un’isola circondata da terra spoglia, della diffusione selvaggia di fattorie e coltivazioni di palme da olio che ha strappato a questi animali porzioni sempre più ampie del loro habitat naturale, del commercio di carne destinata a soddisfare un’elite locale dal palato esigente, e i gusti esotici di scellerati committenti tra Stati Uniti, Europa e Cina. Insomma ci fa capire senza mezzi termini che sono gli esseri umani i primi a minacciare i loro più stretti parenti. E, congedandoci, ci avvisa che c’è solo un modo per evitare il peggio: coinvolgere le popolazioni locali nelle strategie di conservazione dei primati. Una strategia che lei stessa ha messo a punto nel 1994  nel progetto Tacare, un programma educativo svolto nei villaggi della Tanzania per far conoscere i vantaggi di un equilibrato rapporto con l’ambiente circostante. È di interventi come questo che Jane Goodall pensa ci sia sempre più bisogno, perché la salvaguardia degli scimpanzè è strettamente connessa con il benessere di chi vi abita affianco. (g.d.o.)

Riferimento: doi:10.1038/466180a  http://www.nature.com/nature/journal/v466/n7303/full/466180a.html

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