Società

La solitudine si “vede” nel cervello. Ecco dov’è e come provare a combatterla

Fra nuovi DPCM e incertezze sulle restrizioni, si avvicinano le festività natalizie, che per molti saranno sinonimo di solitudine e isolamento. E c’è chi, tra gli scienziati, si è occupato anche di capire cosa significa tutto questo per il nostro cervello. Lo hanno fatto i ricercatori dell’Università McGill a Montréal, in Canada, analizzando le immagini cerebrali ottenute con la risonanza magnetica. La ricerca, pubblicata su Nature Communications, mostra come cambia il cervello di chi soffre di solitudine, che tende a pensare e a concentrarsi molto su di sé più che verso l’esterno. Il risultato potrebbe aprire le porte anche a una riflessione su come poter contrastare i sentimenti negativi legati alla solitudine, assumendo punti di vista differenti.

Lo studio sulla solitudine

I ricercatori hanno analizzato i dati di circa 40mila volontari adulti e anziani che hanno preso parte all’ampio studio inglese Uk Biobank, un’indagine sul legame fra geni, fattori di rischio ambientali e lo sviluppo di varie malattie. La solitudine, va detto, non è una malattia, ma una condizione di cui si può anche godere, se vissuta con consapevolezza e in maniera positiva. Cosa diversa è il sentirsi soli, una sensazione soggettiva e uno stato d’animo che può essere fonte di emozioni negative. La definizione di solitudine, dunque, è molto importante, anche per chiarire i confini dello studio. I ricercatori hanno considerato un senso di solitudine protratto nel tempo, non momentaneo, e associato a un’esigenza di rapporti sociali non soddisfatta, dunque a malessere e stress.

L’idea degli scienziati era studiare, attraverso le immagini di risonanza magnetica cerebrale, se e come la solitudine cambiasse l’attivazione cerebrale. Per farlo hanno comparato le immagini del cervello di persone che si sentono sole con quelle di chi non vive questo stato d’animo.

Solitudine, la firma nel default network

E a quanto pare, una differenza c’è e anche ben evidente. I ricercatori hanno scoperto che nelle persone che provano solitudine il circuito cerebrale chiamato default network gioca un ruolo centrale. Questa rete connette varie regioni del cervello e si attiva quando l’individuo sta riflettendo su se stesso e sugli altri. Oppure sta ricordando il passato o sta pianificando o il futuro o ancora proiettandosi e immaginando scene di un presente diverso, più ricco di contatti sociali. Gli autori hanno osservato che nelle persone che provano solitudine il default network è più connesso. Inoltre il volume di materia grigia nelle regioni cerebrali associate è maggiore. E non è un caso che proprio quando ci si sente soli questa rete cerebrale giochi un ruolo di primo piano. Questa, infatti, rappresenta la “base neurologica del sé”, di come si percepisce e descrive se stessi.

Un’altra differenza si trova nella struttura del “fornice” o “giro del fornice”, un fascio di fibre nervose a forma di “C”. Queste veicolano le informazioni dall’ippocampo, area centrale per la memoria, al default network. Anche la memoria è centrale, dato che la persona che si sente sola potrebbe tendere a pensare al passato e a lasciarsi andare ai ricordi. Anche queste strutture sono più attive e connesse nelle persone che si sentono sole, che tendono ad essere maggiormente riflessive più che rivolgere la mente a ciò che accade all’esterno.

Spostare l’attenzione verso l’esterno

Se di per sé la solitudine non è una malattia, questo concentrarsi su se stessi può non sempre far bene. Un recente studio sulla rivista Emotion ha mostrato che durante una passeggiata all’aperto, in un bosco, spostare l’attenzione verso l’esterno, quando possibile, cercando di osservare e cogliere con tutti i sensi gli elementi e le scene della natura, può essere di aiuto per provare emozioni e sensazioni positive e sviluppare un senso di gratitudine, anche quando si è soli. L’attenzione ai dettagli dell’esterno, a cogliere e vivere i dettagli nel momento presente è fra l’altro uno degli approcci adottati dalla mindfulness. Queste azioni e nuovi punti di vista potrebbero essere, almeno in parte, uno strumento di supporto, soprattutto in un periodo complesso come quello di una pandemia.

Riferimenti: Nature Communications

Viola Rita

Giornalista scientifica. Dopo la maturità classica e la laurea in Fisica, dal 2012 si occupa con grande interesse e a tempo pieno di divulgazione e comunicazione scientifica. A Galileo dal 2017, collabora con La Repubblica.it e Mente&Cervello. Nel 2012 ha vinto il premio giornalistico “Riccardo Tomassetti”.

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