Dopo l’optogenetica arriva la sonogenetica. La prima permette di controllare l’attività delle cellule grazie alla luce (ed è già stata utilizzata in diversi studi di neuroscienze), la seconda, appena presentata sulle pagine di Nature Communications, promette di farlo utilizzando gli ultrasuoni (sì, quelli usati nelle ecografie). Sempre di neuroni parliamo (ma non solo), ma avremmo a che fare con qualcosa migliore dell’optogenetica, rivendicano gli autori del paper.
Per capire perché ripassiamo un attimo i principi dell’optogenetica. Si tratta di una tecnica in cui delle proteine sensibili alla luce vengono inserite all’interno dei neuroni. Applicando la luce queste proteine sono in grado di attivare o silenziare il neurone in cui sono contenute (causando l’apertura di canali ionici). Ma immaginando di utilizzare la tecnica in terapia (come nel trattamento di patologie neurologiche) si avrebbero non poche difficoltà: la luce viene diffusa dal tessuto nervoso così come da altri tessuti e far sì che raggiunga le cellule interessate, spesso collocate in profondità nel cervello, non è semplice e richiederebbe interventi di chirurgia per l’impianto di fibre ottiche, per esempio.
Quanto propongono invece Sreekanth Chalasani del Salk Institute di La Jolla (California) e colleghi è un approccio meno invasivo per la stimolazione neuronale, sostengono.
Ecco come funziona. Gli ultrasuoni, a differenza della luce, possono arrivare anche in zone profonde del corpo senza perdersi, essere dispersi. Un vantaggio, spiegano i ricercatori, quando si vuole agire su una zona in profondità senza influenzare quelle vicino. Per questo gli scienziati hanno pensato di ricorrere agli ultrasuoni per modificare l’attività dei singoli neuroni, utilizzando anche modifiche genetiche e mini-bollicine riempite di gas per amplificare l’attività egli ultrasuoni. Un approccio appunto chiamato di sonogenetica.
Gli esperimenti condotti dai ricercatori sono stati fatti su Caenorhabditis elegans, il verme ampiamente utilizzato come modello per studi di biologia. “Le microbolle (localizzate nell’agar della piastra, nda) crescono e si restringono in sintonia con le onde di pressione ad ultrasuoni”, ha spiegato Stuart Ibsen, primo autore del paper: “Queste oscillazioni possono poi propagarsi in maniera non invasiva nel verme”, dove riescono a interagire con una proteina, un canale ionico noto come TRP-4. Quando infatti la deformazione meccanica delle bolle si propaga nel verme può determinare l’apertura del canale e l’attivazione delle cellule in cui è espresso. Introducendo la stessa proteina in neuroni che non la esprimono, gli scienziati sono riusciti ad attivare cellule che normalmente non reagiscono agli ultrasuoni, come mostrato nel video, in cui la stimolazione con ultrasuoni di questi neuroni fa girare il verme.
Per ora i test sono stati condotti solo sul verme, ma lo stesso approccio potrebbe essere trasferito anche ad altri tipi di cellule, quelle umane comprese, attraverso l’aggiunta della proteina TRP-4 come mediatore dell’attività degli ultrasuoni. Diverse cellule infatti potrebbero rispondere alle attività indotte da TRP-4 (come l’afflusso di calcio nelle cellule). Le mini-bolle necessarie per amplificarne l’attività potrebbero essere distribuite nel flusso sanguigno, continuano i ricercatori, e quindi usate come messaggeri locali attraverso fasci di ultrasuoni indirizzati nelle zone di interesse. Ad accendere o spegnere l’attività di una popolazione cellulare a comando.
Via: Wired.it
Credits immagine: Salk Institute