Categorie: Ambiente

Un business con poche qualità

L’effetto delle attività umane sull’ambiente è sempre più evidente. Alla stregua di un prodotto consumistico di facile accesso, gli esseri umani sfruttano e degradano l’ambiente in cui vivono senza preoccuparsi delle conseguenze delle loro azioni. I livelli d’inquinamento crescono nel tempo causando un aumento degli effetti nocivi delle sostanze tossiche che agiscono in maniera sinergica sulle componenti viventi dell’ecosistema terrestre. Questo processo ha una ragione molto semplice: l’apporto di inquinanti avviene a un tasso maggiore di quello di smaltimento e quindi tali sostanze tendono ad accumularsi nell’ambiente.Attualmente la consapevolezza che il nostro pianeta ha raggiunto dei livelli soglia di tolleranza (carrying capacity) oltre i quali il danno diviene irreversibile (o non completamente reversibile), sta penetrando nella coscienza della nostra società.

Tuttavia, il concetto di salvaguardia ambientale appare ancora soggetto alla sensibilità individuale. Tutti riconoscono l’importanza dell’ambiente, tutti vogliono spazi verdi e puliti dove far crescere i propri figli, ma l’ambiente viene riconosciuto come importante solo nel momento in cui si impone un’emergenza ambientale (fughe radioattive, incidenti di petroliere, rilascio massivo di sostanze altamente tossiche). In realtà è purtroppo noto, almeno agli esperti, che i danni più rilevanti agli ecosistemi, ancorché più difficili da identificare e combattere, sono quelli procurati da forme d’inquinamento cronico.Il danno Negli ultimi 10 anni si è in assistito a un fiorire di sistemi di valutazione di impatto ambientale (Via), protocolli più o meno standardizzati con cui si cerca in qualche modo di quantificare l’impatto dell’essere umano sull’ambiente. La stima del danno però non è sempre possibile, in quanto è difficile stabilire il valore economico di una riduzione della biodiversità e/o della qualità delle acque in un’area.

 Al contrario, nella valutazione del rapporto costi-benefici troppo spesso la rilevanza della questione ambientale è ignorata e subordinata ad altre problematiche che polarizzano l’attenzione pubblica, quali l’occupazione e lo sviluppo economico. Anche il concetto di “sostenibilità”, oggi largamente utilizzato, viene interpretato a partire da presupposti errati: si pensa alla crescita della produzione o dell’occupazione, e quindi in termini economici, dimenticando che nessuna attività è “sostenibile” nel tempo se non è eco-compatibile. Al contrario molti ecosistemi naturali possiedono un equilibrio molto fragile e andrebbero opportunamente protetti e conservati. Spesso, però, il concetto di protezione ambientale entra in conflitto con le necessità sociali d’utilizzo del territorio.

Una gestione adeguata dell’ambiente richiederebbe invece l’armonizzazione di due componenti: la conservazione ambientale e l’ uso del territorio e delle sue risorse. Questo già (difficile) obiettivo è reso ancora più arduo dal progressivo scadimento della qualità ambientale, dalla riduzione delle risorse (non sempre) rinnovabili e da una progressiva scomparsa di aree (terrestri o marine) non inquinate e socialmente fruibili. La riduzione di “spazi/ecosistemi sani” rende pressante la necessità di operare sull’ambiente per invertire questo processo. In questa prospettiva, il “recupero ambientale” sembra costituire la soluzione a danni già esistenti.

Il concetto di “recupero” consiste, da un lato, nella riduzione dell’inquinamento e dell’impatto antropico, e dall’altro nel ripristino di equilibri strutturali e funzionali dell’ecosistema, sia esso un corso d’acqua, una foresta, un’area verde urbana, un porto o una baia. Gli esempi più evidenti di operazioni di recupero ambientale sono quelli del biorisanamento di suoli contaminati da sostanze tossiche o ambienti costieri in cui sono stati accidentalmente rilasciate enormi quantità di idrocarburi. Questi ambienti, una volta completato il loro recupero, tornano a essere spazi fruibili. I rimedi Anche nel recente passato, diversi tentativi di recupero ambientale a seguito di gravi emergenze ambientali si sono rivelati più dannosi dell’evento che li aveva resi necessari.

E’ il caso di alcuni gravi incidenti che hanno coinvolto petroliere come la Amoco Cadiz, che alla fine degli anni Settanta rilasciò nelle acque della Manica centinaia di migliaia di tonnellate di idrocarburi. La prima risposta a questa emergenza fu quella di associare sostanze disperdenti agli idrocarburi e di combinare questi ultimi con dei substrati per farli sedimentare al fondo. I risultati di queste operazioni furono disastrosi. I disperdenti (prodotti dalle stesse compagnie che estraggono e distribuiscono i derivati del petrolio) si rivelarono più tossici e dannosi per l’ambiente degli idrocarburi stessi. Inoltre, l’affondamento di tali sostanze ebbe l’effetto di allungare i tempi di degradazione (che sono accelerati dalla presenza della luce, scarsa o nulla a livello dei fondali marini) e di esporre le coste a successive “maree nere” ogni qualvolta il fondale veniva a essere risospeso (e con esso gli idrocarburi intrappolati nei sedimenti).

Questa e altre esperienze analoghe hanno reso evidente che gli interventi di recupero ambientale non possono procedere per tentativi ma necessitano di un’adeguata analisi secondo criteri ecologici consolidati e selezionando con attenzione le tecnologie da adottare. Senza una conoscenza adeguata dei presupposti ecologici e degli strumenti adeguati, il recupero ambientale appare difficilmente realizzabile. Tutto ciò ha un costo, inizialmente quasi esclusivamente legato alla ricerca scientifica e tecnologica (i.e., applicata alla ricerca di strumenti adeguati), e in seguito operativo (costi di recupero della qualità ambientale di un’area) di cui è necessario tenere conto.

Anche la scelta dei criteri da adottare per la valutazione della qualità e dello stato dell’ambiente è importante al fine di guidare le azioni e le decisioni gestionali per il recupero ambientale. Gli interventi volti a ridurre le cause e le conseguenze dello “stress” ambientale si devono avvalere di informazioni che derivano da un opportuno studio delle caratteristiche dell’ecosistema stesso e dalla valutazione del suo stato di salute. Tali informazioni risultano essenziali per indirizzare le future decisioni e azioni nel quadro di un’adeguata pratica gestionale. La conoscenza approfondita dei vari ambienti rappresenta il fondamento della gestione adattiva, una componente chiave del Sistema Gestionale Basato sull’Ecosistema (SGeBE). Secondo tale sistema, che è finalizzato alla protezione e alla conservazione dell’ecosistema, la definizione di stato di salute dipende dalle necessità, dai valori e dalle preferenze di una comunità e da un’ampia prospettiva socio-culturale ed economica. In questo tipo di valutazione vengono incluse le leggi, le regolamentazioni e le altre istituzioni designate per proteggere le risorse ambientali di quella determinata zona.

Il modo in cui le differenze culturali influiscono sul paesaggio è evidente dal confronto tra usi e tradizioni di società diverse che modificano ambienti e ecosistemi in partenza molto simili tra loro. Da questa prospettiva, il ruolo e il significato di uno strumento come il monitoraggio ambientale si allargano. In passato il monitoraggio veniva utilizzato unicamente come strumento di raccolta di informazioni su alcuni parametri “di base” di un ecosistema. Lo scopo di questo sistema di “controllo dello stato di salute dell’ecosistema” è quello di costituire delle serie storiche di dati necessarie a individuare cambiamenti in atto dello stato di salute dell’ecosistema e, in prospettiva, di effettuare misure previsionali di condizioni alterate del suo funzionamento. In realtà il monitoraggio ha mostrato numerosi limiti che rischiano di rendere questo strumento inefficace rispetto agli scopi prefissi e oneroso in termini di costi di realizzazione. Lo scopo del monitoraggio non deve essere più solo quello di raccogliere dati ambientali ma piuttosto quello di fornire informazioni precise e mirate rispetto alle condizioni ambientali locali.

L’utilizzo di un sistema unificato al livello nazionale, se da un lato garantisce la possibilità di un confronto, dall’altro impone infatti una visione interpretativa comune, mentre l’analisi delle caratteristiche ecologiche di diversi ecosistemi impone diversi livelli di attenzione e diverse risposte a condizioni apparentemente simili di stress. Inoltre il monitoraggio appare uno strumento inutile se è privo di un sistema di Valutazione della Qualità dei Dati (Dqa, Data Quality Assessment). Ogni programma di monitoraggio può prevedere il coinvolgimento delle sole istituzioni preposte agli obiettivi di tutela ambientale o può anche avvalersi delle forze di volontariato e di altri contributi, secondo un vero approccio gestionale di ampio respiro.

Il coinvolgimento di tutte le categorie sociali alla raccolta di informazioni dirette (tramite la partecipazione ad attività di misure fisico-chimiche sul campo) o indirette (tramite la raccolta di segnalazioni di eventi specifici riportati in occasione di osservazioni individuali e casuali) risulta essenziale per migliorare la capacità interpretativa del ricercatore rispetto a ogni cambiamento ambientale. La sfida del recupero e della gestione ambientale – sia che si riferisca ad un paesaggio costiero, ad un corpo d’acqua o ad un ecosistema regionale – è che questi sono complessi, dinamici e in continua evoluzione nel contesto delle interazioni uomo-sistema ambiente. Gli ecosistemi infatti non possono essere pienamente compresi o gestiti focalizzandosi solo su una o anche diverse singole parti, essi necessitano di una visione sistemica basata su una migliore conoscenza del loro funzionamento.

In modo particolare negli ecosistemi occupati e utilizzati intensamente dall’uomo, quali la fascia costiera italiana, i valori culturali giocano un ruolo chiave nel determinare gli attributi di un ecosistema sano. Ne consegue che tali criteri di valutazione sullo stato dell’ambiente dovrebbero essere basati sia su criteri biologici e ambientali che sul principio di funzionalità di un ecosistema in termini socio-culturali. Un ecosistema è considerato sano se è in grado di mantenere la sua integrità nonostante la presenza di stress esterni sia di origine antropica che naturale. Questa capacità di ritornare a condizioni normali dopo un evento di disturbo è nota come resilienza ed è una proprietà essenziale di un ecosistema. Tuttavia, oggi si assiste a una distruzione sistematica degli habitat, nel senso che troppo spesso viene superata la soglia di resilienza di un dato ecosistema. Non solo: la totale antropizzazione degli ambienti naturali sta anche rivelando insospettabili prospettive economiche.L’affare del recupero La crescente necessità delle popolazioni dei Paesi più ricchi di potere usufruire di ambienti naturali e incontaminati sta portando rapidamente le società avanzate a investire nel recupero ambientale.

Dal momento che la distruzione degli habitat non è ancora “eticamente” deplorevole (e spesso non viene sanzionata), il degrado ambientale può dunque rappresentare uno dei maggiori investimenti dell’industria del recupero del prossimo futuro. Un esempio storico del circolo “virtuoso” degrado/recupero è legato all’industria bellica e a quella della ricostruzione e bonifica dei territori teatro degli scontri. Oltre alla produzione di armi pesanti, la produzione e vendita su larga scala di armi leggere e a basso costo (è il caso delle mine antiuomo) ha un duplice vantaggio: apre nuove frontiere del mercato bellico per nazioni con limitate capacità economiche e apre enormi prospettive per la successiva bonifica dei territori minati. Contro questo circolo “virtuoso”, oggi si sta (faticosamente) facendo strada la condanna morale della vendita di armi e, conseguentemente, gli ostacoli alla loro produzione e commercializzazione che rendono sempre meno remunerativa quest’attività.

Analogamente nel campo del recupero ambientale si stanno aprendo nuovi mercati e l’ambiente si sta proponendo in modo prepotente come business del futuro. Ancora una volta, distruggere per ricostruire. L’ambiente terrestre appare ovviamente il primo obiettivo del degrado dovuto all’azione dell’essere umano. Rappresenta anche l’ambiente più occupato, sfruttato e sorvegliato. Scarichi domestici, scarichi industriali, scorie radioattive, l’utilizzo dell’ambiente per attività turistiche (parte integrante delle nostre attività produttive e abitudini vitali) contribuiscono al progressivo degrado degli ecosistemi sia terrestri che marini. In particolare il concetto di “territorio marino” è molto meno definito del concetto di territorio sulla terraferma.

Nonostante sia soggetto a concessioni e regolamentazioni, il mare è “di tutti” e quindi risulta difficile individuare i soggetti che dovrebbero occuparsi della sua salvaguardia, ma non per questo la questione risulta meno importante e delicata. Per spezzare la logica del “degradare per poi bonificare” sarebbe fondamentale accettare la responsabilità umana sulle componenti dell’ecosistema, ma al contempo limitare il proprio controllo sull’ambiente. L’essere umano non può pensare di utilizzare l’ambiente sfruttandone le risorse per poi “risanarlo”, perché questo vuol dire semplicemente aumentare la dipendenza dell’ambiente dall’essere umano, e di conseguenza rendere ancora più artificiale l’ecosistema naturale. Quando parliamo di protezione ambientale nel senso di intervento umano (e.g., ingegneria ambientale, biorisanamento o biotecnologie ambientali), dovremmo riflettere attentamente sulle conseguenze effettive di tali interventi.

L’auspicio sarebbe quello di rendere alla natura il principio dell’autoregolazione, secondo cui ogni ecosistema è in grado di assorbire un danno e ritrovare un determinato equilibrio. Questo concetto suggerisce un punto di contatto forte tra eco-etica e sostenibilità ambientale, perché il principio dell’autoregolazione dell’essere umano è il presupposto per ristabilire la compatibilità dello stesso con l’ambiente. Inoltre risulta fondamentale stabilire/definire che cosa è “bene/benefico” e cosa è invece “danno” per stabilire in una prospettiva a lungo termine ciò che è bene fare da ciò che non è giusto fare, in maniera indipendente rispetto a guadagni economici a breve scadenza. Produrre un danno nel presente che verrà scontato dalle generazioni future è infatti eticamente inaccettabile anche se prevedessimo una progressiva diminuzione del rischio ambientale.

E’ l’ora dell’ecocologiaE’ necessario quindi quantificare il danno ambientale per identificare a priori ciò che riteniamo accettabile e ciò che riteniamo non accettabile. Ciò che non riusciamo a regolamentare, può essere deciso a priori: se noi stabiliamo a priori quello che è accettabile, possiamo già introdurlo come regolamenta-zione delle future attività dell’essere umano. Le politiche ambientali scelte e imposte a livello di Comunità Europea possono funzionare. L’adozione dell’uso della benzina verde ha determinato una forte diminuzione (di circa venti volte) dei livelli di piombo in mare. Ciò non vuol dire che si sia risolto il problema dell’inquinamento da scarichi di autoveicoli (anzi i nuovi catalizzatori e additivi possono avere a loro volta un diverso impatto sull’am-biente), ma dimostra che è possibile adottare delle politiche ambientali e, se le scelte si riveleranno giuste, ottenere buoni risultati. Gli strumenti di intervento esistono.

L’economia però, se veramente vuole raggiungere gli obiettivi di sostenibilità, dovrebbe integrarsi con valori eco-etici. In futuro è auspicabile un confronto serrato tra economisti ed ecologi per discutere l’importanza dell’accettazione di principi precauzionali. Il sen-so di tali principi può essere sintetizzato con il concetto: “non inserire o uti-lizzare prodotti di cui non sia stata dimostrata l’innocuità da un punto di vi-sta sanitario e ambientale”. Questo concetto si può facilmente applicare sia nel caso di prodotti chimici che per organismi geneticamente modificati. Credo che questo sia l’unico modo per operare correttamente nei confronti dell’ambiente, di noi stessi e soprattutto delle generazioni future.La conoscenza teorica e tecnico/applicativa del recupero ambientale costituisce una lacuna che necessita di essere sanata.

Per fare ciò è necessaria una diretta cooperazione tra chi fa la ricerca (enti di ricerca e università) chi la promuove (Ministero dell’ambiente, Ministero delle politiche agricole e forestali, Ministero della ricerca scientifica e tecnologica), chi l’applica (piccole, medie e grandi imprese) e chi la richiede (istituzioni pubbliche e/o compagnie private).

BIBLIOGRAFIA

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[2] – Wayne S., Simon T.P., Biological Assessment and Criteria: Tools for Water Resource Planing and Decision Making, Lewis, Boca Raton 1995.
[3] – Naiman R.J., Watershed Management Balancing Sustainability and Enviromental Change, Springer, New York 1992.
[4] – Rapport D.J., Regier H.A., Hutchinson T.C., “Ecosystem Behavior Under Stress”, The American Naturalist, 125
[5], 1985, pp. 617-640.5 – U.S. Enviromental Protection Agency, The Volunteer Monitor’s Guide to Quality Assurance Project Plans, EPA 841-B-96-003, Office of Wetlands, “Oceans and Watersheds”. 1996. [6] – Kay J., Francis G., Ecological Intergity and the Managment of Ecosystems, St. Lucia Press 1993.
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