Un Watergate scientifico

Daniel J. Kevles
Il caso Baltimore. Un conflitto fra politica, scienza e personalità
Giovanni Fioriti, 2000
pp. 492, euro 29,95

Qual è il confine che separa la cattiva scienza dalla frode? È questo il motivo principale del volume di Daniel J. Kevles. Racconta la storia di un Nobel, David Baltimore messo alla sbarra per un articolo in cui i dati erano sospettati di falsificazione. Per quanto affascinanti, i particolari dell’articolo sono in qualche modo superflui in questa sede. Basti sapere che parlava di immunologia, e Baltimore era il terzo nome dell’articolo, apparso nel 1986 sulla rivista Cell, dopo Thereza Imanishi-Kari e David Weaver. Un’assistente di laboratorio di Imanishi-Kari, Margot O’Toole, espresse da subito dei dubbi sul modo in cui era stato condotto l’esperimento. Nel tempo, i suoi dubbi presero la forma di una certezza. Tanto da costringere gli autori dell’articolo a pubblicare una ritrattazione, in cui si sosteneva che la tesi centrale non era comunque inficiata dalle critiche. Ma O’Toole non si fermò qui e portò le sue accuse di fronte agli organi di controllo interni degli Nih (National Institutes of Health), l’ente che erogava i fondi per il laboratorio di Imanishi-Kari. Il caso diventò sempre più grande, arrivando sul tavolo del deputato del Congresso americano John Dingell che dirigeva il comitato contro le frodi scientifiche con modi spicci di stampo poliziesco. Le prove portate di fronte alla giuria del Congresso e degli Nih erano però molto deboli, e rivelavano una profonda incomprensione della dinamica del lavoro scientifico. I risultati infatti non sempre coincidono perfettamente con le ipotesi, i dati poi vengono selezionati, ed è anche qui che si esplica la creatività dello scienziato: dove altri non vedono nulla, qualcuno può trovare un senso. Ecco perché le analisi che gli accusatori portarono davanti alla corte erano sì pertinenti, ma allo stesso tempo non dicevano nulla, perché erano attribuibili al modo stesso in cui si fa scienza nei laboratori, dove il disordine è sovrano e solo quando si scrive un articolo si esplicita un modello preciso. Così, andare a frugare nei taccuini degli scienziati è poco fruttuoso al fine di costruire un teorema accusatorio.

Le ragioni di Imanishi-Kari furono però inascoltate e Dingell, insieme alla commissione interna degli Nih, continuò il procedimento nei suoi confronti. Ma Imanishi-Kari era un pesce piccolo, Baltimore faceva ben più gola. Giovanissimo premio Nobel (nel 1975 a soli 37 anni, insieme a Dulbecco), è uno dei più brillanti scienziati americani, con importanti incarichi manageriali. Per i media è lui il mostro da sbattere in prima pagina. E intorno a lui si concentra l’attenzione, a lui vengono rivolte le accuse di comportamento scorretto. La povera Imanishi-Kari rimane nel dibattito pubblico figura di sfondo, e a Baltimore va sicuramente attribuito il merito di non aver lasciato affogare la sua collega. Il caso si è concluso nel 1996, dieci anni dopo la pubblicazione dell’articolo su Cell, con la completa assoluzione degli autori dell’articolo. Per tutti è la fine di un incubo. Tutta la storia è raccontata con enorme dovizia di particolari da Daniel J. Kevles, che ha ammassato una incredibile quantità di fonti, tra articoli, interviste e dossier di accusa e difesa. Oltretutto, sono spiegati in modo chiaro anche gli elementi scientifici del dibattito. Mantenendo sempre il fuoco dell’attenzione sulla cronaca degli eventi, Kevles non rinuncia però a dare interpretazioni precise dell’accaduto, mostrando chiaramente di parteggiare per Baltimore e Imanishi-Kari contro un’idea distorta della correttezza scientifica. La tesi di fondo, condivisibile solo in parte, è che la scienza possieda al suo interno meccanismi di controllo sufficienti. Ma Kevles presenta anche il suo libro come una difesa dei diritti civili degli scienziati, ai quali deve comunque essere garantita la possibilità di sbagliare in buona fede. Seppur non si può considerarli al di sopra di ogni sospetto, trattarli come criminali non serve a molto. Anche gli scienziati dovrebbero però fare la loro parte, contribuendo a rendere il lavoro di ricerca il più trasparente possibile. Libri come questo, sicuramente aiutano.

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