La civilizzazione non ha diminuito la violenza

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(Foto via Pixabay)

In che cosa ci differenziamo rispetto ai nostri antenati tribali? Siamo più civilizzati, rispettiamo le regole e siamo in generale più pacifici e meno violenti, vero? In realtà, siamo violenti come i nostri antenati che vivevano in tribù. Lo sostiene uno studio condotto dagli antropologi Rahul Oka ed il suo gruppo di ricerca dell’Università di Notre Dame, Marc Kissel dell’Appalachian State University e Nam C. Kim dell’Università di Wisconsin-Madison negli Stati Uniti e pubblicato su PNAS.

Da decenni gli antropologi cercano di comprendere il significato evolutivo della violenza umana e dibattono sulla questione se gli uomini che vivevano nelle comunità tribali migliaia di anni fa fossero più o meno violenti degli uomini nelle società moderne. Per rispondere a questa domanda gli scienziati tengono conto della frequenza con cui si verificano i conflitti armati, del numero di persone coinvolte nei combattimenti e del relativo numero di vittime. In generale, la dimensione della popolazione di una società determina la dimensione del suo esercito e da quest’ultima dipende, a sua volta, il numero di vittime in un conflitto.

Un’idea consolidata e diffusa tra molti antropologi è che, dal momento che nel tempo si va osservando una diminuzione del numero di soldati impegnati nelle guerre e del numero di vittime dei conflitti in rapporto alla popolazione complessiva, il mondo moderno è meno violento delle società del passato. “Le società su piccola scala hanno un’alta percentuale di persone coinvolte nella guerra. Di conseguenza i morti nel conflitto possono essere anche il 40-50% del numero totale di combattenti. Ma quando da società su piccola scala si passa a grandi imperi o nazioni, la percentuale di morti in guerra può scendere notevolmente e raramente supera l’1%. Se a lottare sono 100 persone, possono morirne 50, quindi il 50%, ma se combattono tre milioni di soldati, i morti possono essere centomila, che corrisponde ad una percentuale molto più bassa. Secondo molti questo suggerisce che le società contemporanee, molto più popolose, siano meno violente di quelle tribali del passato”, ha raccontato Oka. Ma è davvero così?

Rahul Oka ed il suo gruppo di ricerca hanno raccolto i dati sulla numerosità della popolazione e dei relativi eserciti di 295 società del presente e del passato e sulle dimensioni degli eserciti e delle relative perdite in vite umane in 430 conflitti storici, a partire dal 2500 a.C., passando dalle guerre puniche alle due guerre mondiali fino alla purtroppo attuale guerra civile siriana. Quindi hanno ottenuto i grafici dei dati della dimensione degli eserciti in funzione di quella della popolazione e di quelli del numero di vittime del conflitto in funzione della dimensione dell’esercito. In entrambi i casi gli andamenti ottenuti non sono lineari ma obbediscono a leggi di scala descritte da equazioni del tipo y= a xb. Gli autori mostrano che, se si tiene conto delle leggi di scala, si scopre che le società di oggi non sono necessariamente meno violente di quelle del passato.

Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta, entrando nei dettagli. Nelle leggi di potenza del tipo y= axb, le variabili y ed x non sono legate tra loro in modo lineare (y=ax), ma y è proporzionale ad x elevato ad un esponente b diverso da 1, detto esponente di scala. Se b è positivo ma minore di 1, y cresce al crescere di x, ma più lentamente; se b è maggiore di 1, la crescita di y al crescere di x è più rapida rispetto ad una relazione lineare. Le costanti a e b si determinano spesso empiricamente: si raccolgono dati sperimentali sulla relazione tra x e y, e si usano per stimare i valori di a e b. Relazioni di questo tipo sono spesso utilizzate per la descrizione di fenomeni biologici. Un esempio noto è rappresentato dalla legge di Kleiber, secondo la quale negli animali il metabolismo basale è proporzionale alla massa dell’animale elevata alla potenza ¾; ne consegue, ad esempio, che animali di piccole dimensioni devono consumare quantità di cibo proporzionalmente maggiori rispetto ad animali più grandi.

Tornando allo studio, Oka ed il suo gruppo di ricerca trovano che dimensione dell’esercito W e popolazione P sono legate dalla legge di potenza W=kPDCI, dove DCI sta per demographic investment conflict, un indicatore dell’investimento demografico nel conflitto, cioè del numero di combattenti attivi in periodo di guerra (in questo senso DCI può essere un indicatore del grado di violenza della società). Gli autori trovano un valore di DCI medio pari a 0.96 sia per le società su piccola scala del passato sia per gli stati moderni. La dimensione degli eserciti aumenta con la popolazione secondo la legge di scala W=kP0.96, con k minore di 1; l’aumento è proporzionalmente maggiore per società di piccole dimensioni che per società più complesse e il rapporto tra dimensione dell’esercito e popolazione diminuisce all’aumentare della popolazione.

In modo analogo gli autori trovano che numero di vittime C e dimensione dell’esercito W sono legate dalla legge di potenza C=kWCL, dove CL sta per conflict lethality, un indicatore della letalità del conflitto, cioè del numero di vittime di guerra (e anche questo può considerarsi un indicatore del grado di violenza della società). I valori di CL (compresi tra 1.01 e 1.42 per le piccole società del passato e tra 1.21 e 1.44 per gli stati moderni) non risultano significativamente differenti. Il numero di vittime in un conflitto aumenta all’aumentare della dimensione dell’esercito secondo la relazione di scala C=kWCL, con k maggiore di 1; l’aumento è proporzionalmente maggiore per eserciti di dimensioni maggiori e si assiste ad un aumento del rapporto tra numero di vittime e dimensione dell’esercito. L’aumento di tale rapporto nelle società più complesse e tecnologicamente avanzate può essere dovuto all’uso di armi più efficaci ed all’aumento del numero di vittime civili.

DCI e CL consentono, in sostanza, di stimare il grado di violenza che caratterizza una data società, e possono esser usati per l’elaborazione di modelli matematici per effettuare confronti tra società diverse, indipendentemente dal contesto temporale, sociale, economico e demografico, conoscendo le popolazioni, la dimensione dell’esercito e il numero di vittime. L’applicazione delle leggi di scala all’enorme numero di dati disponibili mostra che non vi sono differenze né nell’investimento demografico del conflitto DCI né nella letalità del conflitto CL tra piccole società del passato e le grandi società statali dei nostri tempi e che, in definitiva, non siamo meno violenti dei nostri antenati.

Le società di piccole dimensioni, come le tribù degli Yanomami o degli Enga della Papua Nuova Guinea, hanno un’alta percentuale di adulti che vengono addestrati ed impegnati nei combattimenti in tempo di guerra. Nelle società più complesse, molto popolose, la guerra è affidata ad eserciti specializzati, la cui dimensione, legata alla popolazione dalla legge di scala vista prima, è vincolata da contingenze di tipo economico, logistico e tecnologico. “Una società su piccola scala può avere il 40% della popolazione impegnata in una guerra, ma è economicamente impossibile per uno stato di 10 milioni di persone avere un esercito di 4 milioni di soldati. È logisticamente inconcepibile”, prosegue Oka.

Quindi, secondo gli autori dello studio, è vero che nelle società contemporanee diminuisce la frazione della popolazione che combatte e, di conseguenza, diminuisce la percentuale delle persone che muoiono in guerra, ma questo non sarebbe dovuto ad un cambiamento della nostra natura (come molti sostengono), ma piuttosto a ragioni organizzative, economiche e tecnologiche, che hanno cambiato il modo in cui facciamo i conflitti, ipotizzano.

Riferimenti: PNAS

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